Un quadro di Colobraro, una nobile tursitana e un misterioso ex voto.
venerd́ 24 agosto 2012

Un quadro di Colobraro, una nobile tursitana e un misterioso ex voto, di Gianluca Cappucci

Image Nella chiesa madre di san Nicola di Colobraro, sopra la cappella della famiglia Di Pizio (De Pizzo) è stato appeso per secoli un quadro dipinto da Francesco Curia, artista napoletano figlio del più noto pittore  Michele e attivo nel Mezzogiorno a cavallo tra gli ultimi due decenni del Cinquecento e i primi anni  del secolo successivo.  Il quadro, un olio su tela delle dimensioni di 177 x 117 cm., fu pubblicato per la prima volta nel 1981 dalla studiosa Grelle Iusco nel catalogo della mostra Arte in Basilicata.

La tela  raffigura nella parte superiore una Madonna che tiene in braccio Gesù Bambino; nel registro inferiore in primo piano si erge San Leonardo che stringe nella mano sinistra le catene,  suo attributo iconografico di riferimento, con due personaggi  posti  frontalmente al santo. Si tratta di un uomo e di una donna agghindati secondo la moda del tempo: lui di apparente mezza età, vestito di nero, con un'elegante mantella a coprirgli le spalle, il collo stretto da una vistosa gorgiera bianca, intento a  porgere al santo con entrambe le mani un piccolo libro aperto; alle sue spalle una donna, riteniamo la moglie, abbigliata con una veste  verde dai risvolti arancioni, impreziosita da un'alta e rifinita gorgiera; sul capo è fissato un velo bianco ricadente alle sue spalle, le mani raccolte in atto di preghiera. Gli sguardi devoti di entrambi i personaggi sono rivolti al santo.

La posizione e gli atteggiamenti di queste due figure sono inequivocabilmente legate alla loro funzione di committenti dell'opera, ma a fugare qualsiasi dubbio sul loro ruolo interviene un cartiglio posto nella parte bassa della tela, in posizione centrale. La scritta in latino fornisce una serie di informazioni fondamentali sull'opera e sui suoi committenti: HOC OPUS FIERI FECERUNT NOTARIUS ANGELUS PITIUS DE TERRA COLOBRARII ET IOANNELLA DE PANE ET DE VINO DE TURSIO EIUS UXOR A BEATE MARIAE SEMPER VIRGINIS ET S.LEONARDI 1595.// FRANC. CURIA. 

In base a quanto scritto i committenti sono da individuare in entrambi i coniugi (fieri fecerunt); uno, Angelus Pitius, appartenente ad uno dei gruppi familiari allora più in vista di Colobraro  (i De Pizzo), fu probabilmente il primo di una serie di notai dello stesso casato, attestati ancora nel XVIII secolo (Bernardino e Pasquale Di Pizzo); si trattava di una famiglia di "galantuomini" legata alle cosiddette professioni liberali quale appunto quella del notaio. Sua moglie Giovannella apparteneva alla nobile famiglia tursitana dei Panevino, non estranea all'esercizio delle stesse professioni: proprio nella seconda metà del Cinquecento incontriamo infatti un Paolo Panevino, nominato  avvocato dell'Università di Tursi nel processo intentato contro la Mensa vescovile  per i diritti di pascolo sul feudo di Anglona il quale, pur di vincere una  causa compromessa,  non esitò a  corrompere i testimoni di entrambe le parti, salvo poi pentirsi in punto di morte.

Due figure quelle dei coniugi di Colobraro, certamente altolocate, potenti e in grado di permettersi  il pagamento di un quadro come questo, sicuramente dipinto a Napoli dall'autore, quel FRANC.CURIA citato alla fine del cartiglio. Si tratterebbe senz'altro di una tela devozionale come tante altre se sullo sfondo non fosse rappresentata una scena che suscita una serie di interrogativi. Alle spalle del santo e dei committenti è infatti dipinto un paesaggio avvolto da una luce calda, quasi innaturale. Sulla destra un edificio dalle alte mura alla cui base si aprono grandi finestroni che sembrano chiusi da grate. Un po' più a destra, quella che ha tutta l'aria di essere una corda fissata al suolo da un anello scende dalla sommità dell'edificio. Spostando lo sguardo verso sinistra viene ritratto un braccio di mare con una nave sbattuta dalle onde in tempesta, la vela dispiegata al vento con a bordo alcune figure umane; una in particolare, collocata a poppa,  sembra protendere le braccia a cielo. I dubbi si infittiscono e con loro le domande. Perché uno sfondo così inquietante?  Quale drammatica scena viene rappresentata dal pittore?

Domande che non riceveranno mai una risposta. Si può solo a questo punto cercare di analizzare il quadro e tentare di contestualizzarlo in un momento storico ben preciso, quello della fine del Cinquecento. Innanzitutto il santo, San Leonardo, protettore dei carcerati e per questo ritratto con le catene in mano. E' evidente: si ringrazia la Madonna e poi il Santo per la sua intercessione. Lo si ringrazia perché si è stati liberati (o perché ci si è liberati da soli, come ci fa supporre la corda che cala dalla cima del palazzo) da una prigionia. Quali i carcerieri? Impossibile saperlo con certezza, ma possibile invece ipotizzarlo partendo dall'edificio, per poi spostare lo sguardo verso il mare. Prima la liberazione dunque e poi  il burrascoso attraversamento marittimo. Quale mare? Il Mediterraneo senz'altro;  specchio d'acqua che separava da secoli due culture spesso in conflitto tra loro: quella islamica che nel XVI secolo è rappresentata dal potente impero Turco ottomano e dai suoi sudditi/alleati barbareschi del Nord Africa  e quella cattolica della Spagna asburgica. Una battaglia, Lepanto, svoltasi vent'anni prima dei fatti qui narrati, che non aveva fatto pendere la bilancia in maniera decisiva a favore della cristianità; un mare ancora insicuro, infestato da corsari musulmani e cristiani.

Per  ripararsi dalle incursioni barbaresche, come sempre interessate alla razzia, al bottino e ai sequestri di persona, i sovrani e i viceré spagnoli avevano approntato nel corso del Cinquecento una serie di postazioni di vedetta fortificate che punteggiavano le coste dei loro domini. Appena avvistato il nemico al largo si accendevano i fuochi di segnalazione: due di queste torri si trovavano nel territorio del nostro comune ci dice Rocco Bruno nella sua Storia di Tursi. Imponente apparato che però non bastava ancora: bisognava pattugliare il territorio tra una torre e l'altra e Tursi aveva l'obbligo di concorrere alla sicurezza comune con " cavallari dui li quali habbiano da guardare et discorrere da detta Torre della Bollita (Nova Siri) insino alla bocca del fiume Sinno" e con altri "cavallari dui li quali habbiano da guardare  e discorrere dalla bocca di detto fiume Sinno insino al pantano di Santo Basile" recita un documento posteriore di appena due anni ( 1597) alla data di realizzazione del nostro dipinto.

Senza dubbio una paura ancestrale quella dei pirati, radicata negli animi delle popolazioni del posto dai tempi delle lontane incursioni saracene dell'Alto Medioevo. E Angelus Pitius con sua moglie, la tursitana Giovannella Panevino?  Quale il loro ruolo in queste vicende? Rapiti dai Turchi durante un'incursione e poi liberati dietro il pagamento di un riscatto? O  liberatisi da soli dalla prigionia tra mille peripezie? Molti indizi, come abbiamo visto, potrebbero portare a questa conclusione, ma la verità è purtroppo destinata a rimanere forse per sempre nascosta ai nostri occhi.

Gianluca Cappucci

Bibliografia:

AA.VV, Museo Nazionale d'Arte Medievale e Moderna della Basilicata,Napoli, 2002;

Rocco Bruno, Storia di Tursi, Moliterno, 1989;

M. Crispino, Colobraro. Un paese, una storia, una cultura, Vicenza, 1998;

AA.VV, Tursi. La Rabatana, Matera, 2004.