"Tursi - Immagini di un secolo" Libro fotografico a cura di Rocco Bruno
domenica 08 gennaio 2006

Tursi - A distanza di quasi cinque anni dall’ultima pubblicazione (“La Rabatana. Antico borgo di Tursi”), un altro tassello editoriale di Rocco Bruno, ad oggi il maggior storico locale, arricchisce la ricostruzione delle umane vicende quotidiane dell’amato paese. Arriva dopo: “I canti del ricordo” e “Storia di Tursi”, del 1975; “Anglona. Una città, un vescovado, un santuario”, 1984; “I Donnaperna. Marchesi di Colobraro, Baroni di Pomarico, Calvera, Teana, Carbone e possessori delle tenute di Scanzano e Caprarico”, “Storia di Tursi. 2° Edizione” e “Le famiglie di Tursi dal XVI al XIX secolo”, 1989; “La Cattedrale della Ss. Annunziata. Note storiche ed artistiche”, 2000. Questa volta come curatore del libro fotografico “Tursi. Immagini di un secolo”, che racchiude un centinaio di scatti tutti in bianco e nero, datati tra il 1860 e il 1965, tranne il disegno a colori di copertina, un tipico costume di donna della fine del XVIII sec. Appena stampato a Matera dalla Graficom, il libro si avvale dell’agevole ed affettuosa introduzione di Antonio Rondinelli, docente di lettere della Scuola secondaria dell’Istituto comprensivo di Tursi, e dell’intrigante postfazione di Salvatore Verde, anche amichevole consulente editoriale e direttore del bimestrale “Tursitani”, che ha offerto una determinante sponsorizzazione. Nella sua tipizzazione iconografica di abitante perso tra la folla delle feste, o di componente i gruppi più o meno numerosi, oppure di semplice persona ritratta nella sua statuaria e pensosa individualità, il protagonista assoluto sembra essere costantemente proprio “l’uomo tursitano”. Che è collocato negli spazi familiari, tra le mura domestiche o nella realtà urbana oppure nel paesaggio circostante, indipendentemente dallo status sociale, ma con un’esplicitata prevalenza di inevitabile interesse verso la Chiesa, vescovi, canonici, suore, religiosi, seminaristi, e i rappresentanti delle famiglie nobili, gentilizie e altolocate, insomma quel mondo che prima, più di altri e con maggiore costanza ha avuto accesso e contatto diretto con la fotografia. Pur essendo tutte corredate da fondamentali indicazioni, tuttavia,  le immagini-documenti non sono sempre contestualizzate con completezza di informazioni. A parte questo limite, che nulla toglie al meritorio lavoro di Bruno come collezionista, selezionatore e divulgatore, la carrellata nulla sottrae neppure al complessivo sguardo indagatore dell’osservatore attento, per la ricostruzione visiva del nostro recente passato. La lettura-visione, infatti, alimenta rapite suggestioni sul piano emozionale ed intellettuale, forse perché molte situazioni possono essere ancora ricostruite con precisione, anche dagli stessi protagonisti oggi ormai anziani, che, con stupore un po’ malinconico, certo potranno riconoscersi nei volti immortalati dalle fotografie. Con una paradossale conseguenza, come ben sanno studiosi e ricercatori: le immagini e gli eventi paiono distaccarsi dalla loro periferica e personale collocazione nel ricordo cronachistico, geografico e temporale, per elevarsi nell’olimpo della memoria collettiva, necessariamente spettacolarizzata dal mezzo, ma in tal modo inserendosi nel flusso più generale della Storia italiana delle trasformazioni sociali tra Otto-Novecento.

Leandro Verde

POSTFAZIONE

Lo specchio differito nel viaggio  della memoria  di Salvatore Verde

Esclusa la pretesa di esaustività rappresentativa o di emblematico particolarismo del nostro “piccolo mondo antico”, il lavoro di individuazione, recupero e divulgazione operato da Rocco Bruno, ad oggi il maggior cultore di storia locale, in quanto curatore di questa raccolta di immagini, si offre come una scelta espressiva e comunicativa in funzione socialmente narrativa, con ovvi criteri personali, ma protèsi alla realizzazione di un album ordinato di ricordi collettivi maturati tra i due ultimi secoli e sintetizzati in circa cento scatti, tra il 1860 e il 1965. Quasi una prosecuzione ideale della sua doppia edizione della Storia di Tursi, nel caso aggiornata e riveduta con l’apporto del linguaggio iconico-visivo, invano o poco compenetrato nei primi libri e poi progressivamente utilizzato, mentre si affaccia(va) la fatica della rinuncia allo scrivere degli ultimi anni, ma sempre in grado di riservarci comunque e presto qualche altra auspicabile sorpresa. Senza dimenticare lo straordinario successo di pubblico della mostra fotografica organizzata dallo stesso autore alcuni anni addietro nella centrale via Roma, spunto e sintesi immaginativa per la nascita dell’odierno testo.La generica e variegata provenienza di alcuni materiali, comunque non dichiarata, insieme con la mancata indicazione fondamentale degli autori, unitamente alla non sempre certissima datazione (ma, quando possibile, sarebbe bene far doverosamente riferimento sempre al fotografo, alla data e al luogo, oltre che al soggetto o paesaggio immortalato), pongono una serie di domande implicite-esplicite all’appassionato attento e sensibile e ancor più al disincantato ricercatore-studioso di scienze sociali o umane, come allo storico della fotografia. Alle loro sollecitazioni si cercherebbe invano di dare delle risposte tutte attendibili, probabili e sicure, pur limitandoci al solo rapporto di Tursi e dei tursitani con la fotografia, dalla seconda metà dell’Ottocento e soprattutto nel Novecento, quando sono aumentati a dismisura i documenti iconografici. D’altronde, sarebbe davvero arduo pensare la modernità-contemporaneità senza l’apporto delle immagini fotografiche. Più realistica e meccanicamente precisa delle opere di pittori e scultori, la fotografia, che appare scrittura automatica, è arte del vedere e del comprendere partecipando, e non soltanto un’attività artigianale, perché guardare è oltre il (riflesso del) vedere, implicando un’azione intenzionale di posare lo sguardo, osservare con attenzione, contemplare, verificare e controllare. Solo attraverso questo processo di ricezione attiva, di avvicinamento prima e poi di distanziazione dall’oggetto (culturale) osservato, si può realizzare appieno la costruzione del messaggio originario e l’attribuibile valore condiviso, necessariamente differito nel tempo, con la riattualizzazione personale dei significati.Nel periodo delle origini si diffuse anche e soprattutto la ritrattistica e la panoramica pittoricità di ambienti e composizioni in bianco e nero, a causa dei noti limiti tecnici e temporali di impressione, sviluppo e stampa a colori, mentre più tardi andò in voga la ritualità plastica della posa statuaria, quasi a imitare i modelli della scultura. Anche da alcune pose qui contenute, di soggetti quasi tutti assai seriosi, non a caso, emerge con nettezza il potere del mezzo, che, scrive Marsall MC LUHAN (1911-1980) nella celebre opera Gli strumenti del comunicare, è quello cioè di fissare la gente con uno sguardo di superiorità, come se fossero oggetti, attraverso una delle caratteristiche maggiori del medium, quella di isolare nel tempo momenti singoli, al contrario della cinepresa-telecamera, con la sua azione continua ed esplorativa. È pure innegabile che nel nostro occhio noi alimentiamo varie illusioni in quella che riteniamo una percezione visiva normale. Proprio la crescita della fotografia, ritenuta fino agli inizi del XX secolo una forma razionale di pittura, ha liberato le arti visive pittoriche dal vincolo del realismo a livello artistico, portandole a scoprire e ad accentuare così, al pari della letteratura moderna, l’interiorità dell’artista e l’atto della “creazione”, piuttosto che il mondo esterno. In tal modo, il cinema (e più di recente la televisione) ha consentito l’esplorazione completa delle potenzialità del mezzo fotografico oltre l’impressione di realtà, facendo riconoscere tardivamente l’autonomia creativa della fotografia, con le sue peculiarità fondamentali nell’imprescindibile arricchimento del panorama culturale moderno, perciò anche e soprattutto a livello periferico, per i costi relativamente accessibili, la maneggevolezza delle attrezzature e il fascino del rispecchiamento “vero” della propria immagine e della vicina quotidianità, nel senso della documentazione, prima ancora che della forma estetica (reazione interiore e collettiva analogamente replicatasi con l’affermazione diffusa del cinema e, tra differenze sostanziali, con la diretta televisiva). Intanto, nella raccolta di Bruno, la datazione più arretrata fa ritenere altrove il luogo della foto, presumibilmente Napoli, attraverso i noti legami familiari, economici, amministrativi e culturali che la Città di Tursi ha sempre mantenuto con la Capitale del Regno, molto prima che questa fosse circoscritta istituzionalmente al rango di capoluogo della Campania. Non a caso, dunque, Francesco (Ciccio) MARRA (1900-1976), in sèguito, anche operatore cinematografico, apprese il mestiere, arte e trucchi a Napoli, divenendo il primo fotografo professionista del paese, almeno fino al 1960, quando fu assunto dalla locale esattoria. Con senso figurativo e perizia tecnica, rintracciabili anche nella ricca aneddotica che lo riguarda, fronteggiava un valido “antagonismo” scaturito dall’attività, durata all’incirca fino al secondo conflitto “mondiale”, del giovane ed esuberante Nicola MANFREDI (1908-2005), girovago esploratore di professionalità conclamata, poi falegname e commerciante, e soprattutto di Salvatore STALFIERI (1913-2003), anch’egli d’indubbia capacità tecnico-professionale, raro sperimentatore e noto maestro di laboratorio. Appartengono alle generazioni successive, alcuni con studi e formazione, altri da autodidatta, Nicola CRISPINO (1940), versatile ed esperto foto-cineamatore, già docente nella locale scuola professionale; Giovanni MAZZEI (1944), notissimo e di straordinario talento, dipendente dell’Enea (ex Cnen); Armando ANZILLOTTI (1948), qualitativamente di buon mestiere, da sempre collaboratore della Foto-ottica Orlando, Giambattista (Titta) DI GIURA (1950), impiegato postale, quasi un fotografo-poeta con l’immancabile macchina-pròtesi; e Giuseppe (Pino) GALEAZZO (1965), ultimo rappresentante di una degna tradizione, tecnicamente dotato. A parte si collocano Salvatore SALERNO (1955), docente della scuola Secondaria, sul versante della fotografia artistica, in un percorso postmoderno dai pixel alla pittura, con l’ausilio del computer, e Salvatore DI GREGORIO (1965), edicolante, impegnato in una ricerca multiforme.Dall’insieme collezionato e ordinato tematicamente dal curatore, dunque, ricaviamo indicazioni complesse che attengono al valore intrinseco, esistenziale e anche ideologico che egli attribuisce alla realtà tursitana, con un insegnamento basilare nell’approfondimento delle nostre umane vicende: mai si può sottovalutare o peggio ignorare soprattutto il fatto che Tursi sia (stata) sede di Diocesi, marcando volutamente o meno i destini dei singoli e dell’intera comunità, nelle radici della nostra storia e nei fondamenti culturali, anche quando è avversata, raramente. La Chiesa locale, sembra voler dire, è (stata) in continua relazione con il territorio e con i protagonisti periferici della storia minore. Molte foto mostrano sacerdoti appartenenti a famiglie nobili, gentilizie e benestanti, e gradatamente, in una progressiva crisi vocazionale (è quasi un capolavoro la foto di gruppo del 1949, con i preti apparentemente assorti ciascuno nella propria esibita individualità), provenienti dal popolo di fedeli e credenti, allora in un contesto socio-economico rurale ed arretrato, anzi esclusivamente agricolo e di sopravvissuto stampo feudale. Significativi e coerenti appaiono i richiami ai nuclei di altolocati, come i Brancalasso, Basile, Capitolo, Ferrara, Ginnari, Pierro, Latronico, Ranù, Ayr, non di rado intrecciati e presenti con propri rappresentanti nelle gerarchie ecclesiastiche, e le diverse foto che richiamano mons. Inglese, un “capo” con qualche ambiguità di portamento, e mons. Quaremba, l’importante ed indimenticato “vescovo ingegnere”, con i gruppi di presbiteri non solo locali, i religiosi e le suore, oltre quelli dell’associazionismo cattolico, le feste e le processioni delle Madonne, mentre vediamo appena i mestieri legati al mondo contadino e alla terra: i mietitori, la trebbiatura, la semina, la filatrice, le lavandaie, ma anche il falegname. Non mancano le situazioni contaminate, con i cacciatori, e il divertimento delle maschere, le bande e i gruppi musicali, il gelataio e il nascente fenomeno calcistico. Eppure non è difficile intuire il ruolo subalterno delle donne in una struttura sociale settaria e maschilistica perfino o in particolare tra le mura domestiche, con la mitigata eccezione dell’ambito scolastico, della colonia estiva e dell’asilo infantile. Ed anche il periodo dell’emigrazione operaia negli Usa, con il corollario dei festeggiamenti di ritorni temporanei, tra gioia e tristezza contenute, è un fenomeno strettamente legato alla fecondità del ritratto fotografico, simulacro dell’appagamento di un’assenza, scaturita da una scelta sovente vissuta con il criterio della definitività. Enfatizzata come merita è la vitalità centrale della piazza Plebiscito, con la Società operaia di mutuo soccorso, e della piazza San Domenico (oggi pizzo delle Monachelle), luogo altrettanto usuale di assembramenti e di adunate fasciste, con la scala gerarchica affidata alla magniloquente prossemica più che alla reale visibilità dei soggetti coinvolti, troppi per evitare la dispersione massificata, ma del tutto coerente con l’ideologia dominante imposta dal Duce. Simboli chiari di una incipiente trasformazione sociale del Novecento sono lo sviluppo urbano, con le prime case popolari, e la motorizzazione del trasporto, in forte contrasto con il carro trainato da animali. Segni di una mutazione realizzatasi a Tursi in forme non secondarie, se già negli anni Cinquanta l’avanzata ibridazione socio-culturale e produttiva stimolò altrove le ricerche scientifiche demo-etno-antropologiche di Ernesto DE MARTINO (1908-1965), volendo darci una plausibile spiegazione della mancata inclusione nelle sue indagini.Varie fonti e una moltitudine di quadri fotografici, dunque, con parecchie rarità e moltissimi inediti, si offrono al piacere della scoperta e della riproposizione del senso originario della meraviglia, non senza sentimenti di nostalgia ed abbandono, con gusto un po’ retrò. Ma da una collezione insieme accattivante di immagini, è lecito attendersi e trovare di più, come certamente accade soffermandosi adeguatamente su ogni singola inquadratura, essendo anche uno dei modi privilegiati per non dimenticare, visivamente. (Esemplarmente, nella commemorazione dei Caduti, la cerimonia si è svolta di sabato, al lato della lapide su un cartoncino si legge: “Domani 4 novembre alle ore 14,25 grande incontro calcistico Potenza Tursi”. Chi fosse scettico sulla tradizione del calcio locale, dovrà ricredersi subito). Insomma, sono preziosi documenti da indagare attivamente e non piccoli monumenti da contemplare in semi dormiente passività. D’altronde, non basta la sola immagine per capire gli eventi, né si possono intendere che le fotografie (e i filmati) siano di per sé documenti inoppugnabili, senza tacere il punto di vista degli autori che può riflettere una interpretazione personale. Il citato grande massmediologo canadese avvertì sempre, infatti, che dire comunque che la macchina fotografica non può mentire equivale semplicemente a sottolineare le numerose frodi che vengono compiute in suo nome. Dunque, vanno pur sempre contestualizzate, valutate ed esaminate con i criteri propri della lettura critica del linguaggio delle immagini. Senza dimenticare che molte situazioni ed eventi possono essere ancora riesumati e commentati oralmente da testimoni viventi anziani, alcuni tuttora in grado di riconoscersi perfettamente tra i giovani e gli alunni dei gruppi fotografati. In un’accezione molto intima, infine, nel tentativo riuscito di ricollocazione del binomio parola-immagine e nome-persona, si ritrova il valore moderno della memorialistica fotografica, sorta di diario visivo privato oggi alla portata di tutti (e sempre più digitalizzata), non a caso destinata ad alimentare il ricordo sepolcrale, in attesa che nel cimitero del futuro si posizionino video-filmati e dvd dentro la lapide. Il fine è lo stesso: i mezzi di comunicazione (di massa) e la realtà virtuale non possono impedirci di morire, com’è naturale ed ovvio, in compenso, finché dura il prolungamento dei sensi dell’umana eternità, ci possono far resuscitare, in qualsiasi istant(an)e(a).

Il libro di fotografie a cura di Rocco Bruno è stato pubblicato con il contributo del giornalista Salvatore VERDE, direttore responsabile di TURSITANI, anche amichevole consulente editoriale, proprio al fine di diffondere l’immagine culturale e la crescita della promozione civile e sociale del bimestrale.