Armando Lostaglio su Bob Dylan, il "Divo",
la "bici democratica" e sulla televisione
Bob Dylan, 70 anni di giovinezza, nel
segno di Sant'Agostino
Compie
settant'anni il 24 maggio quel poeta menestrello del Minnesota, Robert
Zimmermann, che abbiamo amato col nome di Bob Dylan. Ha interpretato a suo modo
e forse più di altri il canto di speranza di quelle generazioni che hanno
sognato un mondo più giusto e più libero.
Del poeta controverso ed inquieto si
è scritto e si scriverà ancora molto: di certo ha lasciato una traccia
inestinguibile nella cultura e nel mondo giovanile del secolo scorso, in ogni
dimensione umana e collettiva. Celebrare
la sua immensa opera sarebbe un po' "conforme" rispetto a quanto si dirà e si
scriverà di questo cantautore-poeta-musicista, l'artista ed intellettuale
smanioso e scomodo. Letteratura, cronaca e spettacolo non mancheranno di
ricordarlo. Il cinema ne ha fatto una originale epopea (nel 2007 presentato a
Venezia) con il film di Todd Heyness "Io non sono qui" dove persino la
bellissima Cate Blanchett ne veste i panni e le movenze con vistosi occhiali
scuri. Vorremmo rispolverare un'analisi piuttosto mistica di Bob Dylan, nella
sua costante ricerca di verità. Esaltare la sua poetica con una canzone che il
poeta dedica ad uno dei Padri della Chiesa, a sant'Agostino, nell'album "John
Wesley Harding". Era il 1968, l'anno della svolta nella storia di quello che
viene definito il secolo breve.
Inizia
così la canzone "I dreamed I saw saint Augustine" e che ha il suo apice nella
ripresa successiva: sogna di vedere sant'Agostino "in carne e ossa che correva
nei nostri quartieri in estrema povertà... e cercava anime che già erano state
vendute, gridando forte: Alzatevi, alzatevi! Venite fuori e ascoltate...."
Ed ancora, Dylan confessa: "Ho sognato di vedere sant'Agostino, vivo di un
respiro di fuoco" per aggiungere in conclusione un apocrifo martirio del santo,
in realtà solo un incubo onirico: "Ho sognato di essere tra coloro che lo
misero a morte! Oh, mi sono svegliato adirato, solo e terrorizzato..., ho
abbassato la testa e ho pianto".
La
menzione non poteva che venire da un moderno intellettuale come mons.
Gianfranco Ravasi, il quale ricorda: "Non è che i temi spirituali siano stati
alieni a questo personaggio che aveva respirato non solo folk, rock e blues ma
anche echi degli spiritual afro-americani..." Ed ancora: "In fondo, aveva ragione Dylan: nel vescovo
di Ippona, si incrocia un fiery breath, un ardente respiro di amore, con un
alito fresco che proviene dai cieli cristallini della teologia, nella ferma
convinzione che la natura umana manca di unitarietà e la può trovare solo alla
luce dell'unitarietà di Dio".
Una
disquisizione elevata quella di Ravasi, che spesso nei suoi interventi
ripropone autori di qualsiasi fede, in un argomentare ecumenico che avvolge la
cultura e il pensiero contemporaneo. Quindi, Bob Dylan si inscrive a pieno
titolo fra coloro che scrutano il tempo nel quale viviamo, che affida al suo
talento artistico la "manutenzione" della nostra interiorità, travalicando ogni
inibizione dettata dal conformismo e dall'appiattimento dei sensi. Rimarranno
per sempre le sue canzoni, le sue ballate, le sue proteste. E le sue preghiere.
Una di esse è "Knockin' On Heaven's Door" (Bussando
alle porte del Paradiso) che Bob Dylan inserisce nella colonna sonora di un
film ormai cult: "Pat Garret e Bill the Kidd", che Sam Peckinpak gira nel 1973.
Si muove anche lui, mestamente, in quel western crepuscolare, il cantore di
strada dallo sguardo lungo e penetrante, che cerca risposte "in un soffio di
vento".
A.L.
Un
"Divo" senza più un etica
"Mannaggia
chi t'ha...Ma questo è il capo del governo o solo il capo di un partito?" E'
l'esclamazione dura di un pensionato davanti ad un televisore in una villa
cittadina: si stanno trasmettendo le immagini dai vari tg della sera dai quali
campeggia sempre lui, il premier che parla male degli avversari nel
ballottaggio prossimo venturo delle grandi città, a partire dalla sua, Milano.
L'imprecazione può apparire eccessiva, dialettale, corposa e volgare, ma il
seguito che esclama un cittadino qualsiasi è profondo, quanto mai appropriato
nel senso che giudica una bestemmia il ruolo che il primo ministro esercita da
buon padrone delle emittenti, pubbliche e private, scendendo davvero in campo
per difendere gli interessi "solo" della sua parte politica. Lo avremmo
immaginato un capo di governo della tanto vituperata prima repubblica
abbassarsi in maniera così rozza e grossolana a difendere la sua fazione
politica? Proprio non lo immaginiamo. E' il segno della disperazione dunque, il
crepuscolo che preannuncia ancora una notte. Il buio intorno. Il premier
assomiglia sempre più alla maschera che il regista Sorrentino mette all'attore
Servillo nel suo cospicuo film "Il Divo", con le sembianze di Andreotti. Il
crepuscolo insomma, mentre a Madrid i giovani Indignados si mobilitano in piazza, nel Magreb si fanno
cadere le dittature, da queste parti si urla al vento, si vuol credere sempre
più nelle coordinate democratiche: la voce del pensionato ascoltata sa di
maldicenza, ma pure di estenuazione verso questo dispotismo soft e persino
post-moderno. Forse
il vento cambierà davvero? Malcolm X,
leader dei diritti degli afroamericani, aveva scritto nel secolo scorso:
"Nessuno vi può dare la libertà, nessuno vi può dare l'uguaglianza e la
giustizia. Se siete uomini, prendetevela".
Armando
Lostaglio
La bici è "democratica"
Ha
così titolato una sua osservazione Corrado Augias, (su un quotidiano) parlando
della bici da riscoprire, perché è "geniale e democratica". Naturalmente lo
scrittore si rifà a quelle città pianeggianti che abbondano in Pianura padana.
Ma anche nelle nostre cittadine, da diversi anni, si è riscoperto il gusto
della bicicletta: a gruppi se ne vedono già di buon mattino, ben attrezzati.
Eppure in cittadine pianeggianti, come
Venosa e Lavello, la bici è sempre più presente anche nella vita quotidiana. Ce
ne vorrebbero di più, ma ci vorrebbero anche strade meno disastrate, se proprio
non si è all'altezza di prevedere piste ciclabili. Di piste pedonali, quindi,
neanche a parlarne, in questi strani borghi dove ci si accontenta di andare a
correre in luoghi improvvisati.
A
Rionero, per esempio, da diversi lustri, una strada periferica viene battuta da
podisti di ogni età, tanti i ragazzi: la strada è chiamata Fontana 61, a
ridosso di un'area artigianale e che sconfina in territorio di Atella. In
questa strada pianeggiante, specie d'estate, ciclisti e pur semplici
passeggiatori la utilizzano in maniera massiccia, ma da anni il manto stradale
non vede un minimo di manutenzione. Non si sa bene a chi toccherebbe mantenerla
in buone condizioni (i comuni di Rionero e Atella) visti gli appelli dei
frequentatori che sono rimasti inascoltati in tutti questi anni. Specie
d'inverno, basta una minima pioggia che il fango rende la strada impraticabile.
In precedenza si era pure proposto di chiamare la strada Via dello Sport (adiacente
vi è una palestra) anche per sollecitare un minimo di intervento su quello che
è un percorso ai limiti della praticabilità.
Ma niente. Intervenirvi, invece,
potrebbe rappresentare una benché minima priorità verso chi si accinge a dare
la "svolta" alla cittadina, le cui ville pubbliche sono, in questi giorni di
piogge, prede di erbacce che ne danno la misura del totale abbandono: villa
Catena come villa Stazione, come il giardino di Palazzo Fortunato e altri
piccoli spazi verdi. La natura che prende sopravvento, come il fango che invade
quella strada. Sono solo piccoli emblemi che sovvertono le ansie di crescita di
una comunità che si spinge in avanti, ma che l'istituzione, nelle aspettative,
arriva in ritardo. Sarà qui il dramma dello scollamento più generale di una
distanza incolmabile fra il tessuto sociale, le sue passioni e le ansie di
crescita, e chi le dovrebbe governare guardando un po' lontano? Un ritardo
tanto incolmabile?
A.L.
Maggio, di buone nuove?
"Ben venga Maggio e il gonfalone amico,
ben venga primavera, il nuovo amore getti via l'antico nell' ombra della
sera...".
E' "La canzone dei dodici mesi" che il poeta Guccini cantava in
una lontana stagione di belle speranze (chissà quanto tradite): era il 1972, e
i giovani nutrivano pensieri e canzoni, e poi ammiravano le vaghe stelle
dell'Orsa. Troppi anni ci separano da stagioni nelle quali si aveva l'ambizione
di costruire la storia giorno per giorno. Tutto sembra ora affievolito da una consuetudine che non lascia molto spazio
alla costruzione del Nuovo. Sembra pure che possa accadere qualcosa in una
società apparentemente in movimento, eppure tutto si consuma nel più breve
lasso di tempo. Ci si guarda intorno in questi borghi che sembrano avviluppati
in spirali dinamiche, eppure sono immobili: il tempo passa su di essi lasciando
un segno spesso deleterio.
La linfa vitale, quella dei giovani che dovrebbe sorreggerne le ambizioni, è
talvolta soggiogata come per una infausta legge di contrappasso.
Sovviene un verso terribilmente bello: "i
minimi atti, i poveri / strumenti umani avvinti alla catena / della necessità,
la lenza / buttata a vuoto nei secoli". E' di un poeta del secolo scorso,
Vittorio Sereni (peraltro amico di Sinisgalli). Parole gravi che potrebbero
condurci ad una maggiore riflessione sul tempo corrente, e in particolare nei
nostri borghi persino quando si decide (fra pochi giorni) il futuro di un luogo
che, almeno apparentemente, sembra vocato a cambiare. I nostri luoghi avranno
pure un nome, gravitano attorno ad un monte che da lontano appare come un
avvoltoio, così almeno lo hanno visto i latini: si chiameranno Melfi, Rionero,
mentre sono alla vigilia di una nuova elezione che potrebbe modificare il corso
(anche breve) della loro contemporaneità. Ma il fermento dov'è?
Dove sono quei
ragazzi che dipingevano le strade, che profumavano di impegno e di futuro le
proprie azioni? Sembra invece che tutto rimanga affievolito, pur
nell'approssimarsi di una stagione nuova. Ancora Sereni ci riconduce ad una originale visione: "Non lunga tra due golfi di clamore / va, tutta case, la via; / ma
l'apre d'un tratto uno squarcio / ove irrompono sparuti / monelli e forse il
sole a primavera. / Ma i volti non so più dire". Quei volti che dovrebbero
sorridere a primavera, perché il verde si rinnova e "le piante turbate
inteneriscono". Ci saranno pure dei possibili colpevoli in tutto questo, in un
minuscolo disfacimento di valori e di saperi? E' probabile che lo si ritrovi in
ogni meandro della vita quotidiana, in questo ed in quello che decide le sorti
di una comunità, in quelli che hanno sbagliato le scelte nei precedenti lustri,
in quelli che sono lì e che non meritavano di stare lì. C'è sempre qualcun
altro da investire della sua irresponsabilità. La riflessione cade come una
(chissà quanto utile) fantasia notturna, di un maggio che porti buone nuove; di
individuare le colpe in ciascuno; eppure - suggerisce Sereni - "i volti non so più dire".
A. Lostaglio
Settimana in tv, solo buon cinema
La
settimana appena trascorsa ha offerto diversi spunti per una osservazione meno
superficiale di quanto sopravviene e ci sovrasta. Il matrimonio dei giovani reali
britannici in mondovisione sembra creato
ad arte per irridere della povertà di chi attraversa quasi a nuoto il mare per
cercare nuove fortune; e, a ridosso, la miseria di due miliardi di persone
sincronizzate all'unisono per guardare sfilare i rampolli di un sistema che si
autoalimenta da secoli, solo per tenere viva la fantasia dei sudditi che la
pagano a caro prezzo. Sudditanze manipolate e accettate, e tutti i media
(persino i più seri, a reti unificate) accodati al corteo nuziale.
Quasi
in concomitanza, il Primo maggio, un milione di pellegrini affolla Piazza San
Pietro per la canonizzazione di Papa Giovanni Paolo II, Santo subito (o quasi)
per il suo incommensurabile ruolo svolto negli ultimi decenni del secolo, per
la sua visione globale e unificante dell'umanità, non senza incrinature verso
talune situazioni (come la
Teologia della Liberazione, lo IOR) nel suo lungo papato che
non offuscano certo il suo immenso valore comunicativo, la statura di un uomo
che ha davvero cambiato il corso della storia.
Due
eventi in sequenze ravvicinate, tra il sacro ed il profano, che vedono la tv
predominante nella divulgazione (diretta) degli eventi, ai limiti della
spettacolarizzazione ad effetto. Anche Pasqua e il 25 Aprile cadono in sequenze
ravvicinate: la Pasqua
sacra e quella laica, resurrezione dopo la morte. Eventi in sequenze
ravvicinate,mentre sul fronte manipolatorio, ha contribuito non poco la
programmazione di un Venerdì Santo diverso (o presunto tale): quello realizzato
(in veste di santone) da Bruno Vespa, che esce dalla sua divisa di studio e va
a verificare di persona i barconi fatiscenti che trasportano disperati sulle
nostre coste. E abbraccia una madre in lacrime che non sa nulla del figlio, e
altri migranti che lo invocano come un asceta. Queste immagini potranno fare da
repertorio per futuri programmi esilaranti, del tipo "chisseneinfischia!, basta
che faccia ascolti, basta che il suo opulentissimo contratto (da un milione e
mezzo l'anno) continui a salire: di giornalisti come lui - si dirà - non ce ne
sono poi tanti. Ha saputo cavalcare tutte le onde da quasi 40 anni, se li
merita tutti quei soldi, no? Nessuna pietà per chi soffre, gli basta fare
ascolti, persino sulle lacrime di una madre disperata, con le barchette in
mezzo al mare, sui plastici del dolore, oltre ogni misura di umanità svenduta a
spicchi.
Per
fortuna RaiTre di buon mattino sa cogliere gli eventi, mediante la
programmazione di film della nostra storia che hanno saputo raccontarla. Nel precedente
fine settimana ha proposto il capolavoro di Francesco Rosi "Le mani sulla
città" esemplare ancora oggi nella denuncia di scempi e disastri urbanistici.
Il 25 aprile RaiTre ha quindi mandato in onda "La lunga notte del 43" assoluto gioiello diretto
da Florestano Vancini, che racconta con amarezza quell'anno forse il più
terribile del secolo scorso, in una Ferrara nebbiosa e disperata, ancor più in
quel finale che lascia impuniti gli autori delle stragi.
Infine
un Primo maggio da incorniciare, non solo per il concertone (ormai una
consuetudine solo rinvigorita dal 150°
dell'Unità), quanto per la visione che RaiTre fa della storia: ha rispolverato
un film eccellente di Giuseppe De Santis (soggetto di Zavattini ed aiuto
regista Elio Petri), datato 1952, sulla
disoccupazione femminile nel dopoguerra: "Roma ore 11", capolavoro di
interpretazioni e di coralità, di montaggio e di storie comuni tratto da una
vicenda vera che vide coinvolte, a Roma, decine di ragazze in cerca di lavoro,
rimaste vittime del crollo di una palazzina fatiscente. Un cinema
nazional-popolare (nell'accezione
gramsciana del termine) il cui linguaggio richiama quel taglio di scuola
sovietica con una esplicita socializzazione dei problemi quotidiani. La tv che
si fa cinema, un po' meno inchiesta, specie se a farla sono dei comici
involontari. A cui dedichiamo quell'aforisma di Karl Kraus: il comico è solo il
tragico visto di spalle.
Armando
Lostaglio
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