Armando Lostaglio su Malick, Monticchio, i rifugiati politici e le medie stagionali
L'ALBERO DELLA VITA
(The Tree of Live), film di Terrence Malick
"Ci raccontano le suore che ci sono due vie: una Via
della Natura e una Via della Grazia". E' questo l'esordio di un film poco parlato, molto
girato, tanto elaborato: in laboratorio come pure in una rapida successione di
idee. Rapide e lente sono le sequenze, dalla normalità quotidiana di una vita
familiare, fino all'excursus nell'universo-mondo della Genesi e quel che ne
consegue. La Creazione,
la vita e la morte, l'alba ed il tramonto della stessa Creazione; i dinosauri e
i cataclismi che ne determinarono l'estinzione.
E pure i dinosauri rimandano
agli effetti di un vissuto che emana in fondo la vita: il possesso, la
predominanza, e forse l'amore. La morte infine, che incombe su ogni creatura
vivente a dar prova che la vita è preludio di estinzione. La famiglia, nucleo
arcaico, è messa sotto la lente di Terrence Malick, nel suo ardimentoso film
"The Tree of Live" (vincitore della Palma d'oro 2011), ma rimane solo il pretesto
per la identificazione di un evento come milioni di altri in questo contesto-pianeta,
puntino multiforme e pur attivo nella galassia. E' l'amore a stanare ogni
evenienza di non vissuto. Malgrado tutto, il padre è padrone di un mondo
piccolo che si è procreato solo per dominare? Le movenze di Brad Pitt emulano
il significato stesso di autorevole presenza nel nucleo familiare, alle prese
con le sorti quotidiane, in una storia qualunque americana della metà del
secolo scorso.
E' l'increscioso interrogativo che Malick si pone in
parallelo ai destini del mondo, anch'esso procreato da un Padre che forse vuole
il nostro dolore? Un parallelismo
apparentemente assurdo, se si considera che il Creatore ci ha "creati" con gli
strumenti atti a volere e difendere la nostra felicità. "Mai si è - dunque- troppo giovani o troppo vecchi per
la conoscenza della felicità": lo scriveva in una sua "Lettera" Epicuro (a
Miceneo), al quale proponeva ancora che a qualsiasi età è bello occuparsi
dell'animo nostro. Si, ma Noi chi siamo, in questo universo-mondo che Malick
fotografa magnificamente per esaltarne i colori e poi quasi impunemente per
intimorirci? Siamo creature volatili come quei gabbiani nei tramonti sul mare
ripresi ad arte e senza alcun pudore di aver magari emulato altri cineasti
immensi (come Tarkowskij, o Kubrik?).
Sembra che Dio imperi come un guardiano che ha voluto
la sua Terra per un senso di possesso prima ancora che per donarla alle sue
creature e quindi di goderne. Ed ancora ci sovviene Gesualdo Bufalino quando
scrive: "Se Dio esiste, ma chi è? / Se Dio non esiste, noi chi siamo? Atroci e drammatiche sono le domande che il film
evoca, se non fosse per la avvincente naturalezza di Sean Penn, il quale
(soltanto) nel viso (gli basta) conferisce concretezza alle domande di luce che
implorano gli uomini, vivi anche dopo la Fine. La Fine, ma quale?
Armando Lostaglio
Il tempo delle lucciole di Armando
Lostaglio
"Mamma,
ma cosa fanno quelle ragazze sedute su quel muretto?". Un po' inattesa ed
imbarazzata per la domanda, la donna risponde: "Prendono il sole". "Ma come, il
sole per strada, e poi qui?" ribatte ancora il bambino incuriosito al fianco
della mamma alla guida che, un po' seccata (ci ha raccontato) si vede costretta
a rispondere. Rispondere senza soffermarsi, l'auto corre su quella statale
prima dell'imbocco della galleria a San Nicola. Ne passano di auto e mezzi
pesanti su quella che definiscono superstrada: collega il capoluogo alla parte
più a nord della regione, corre verso il Vulture e le autostrade. E da qualche
tempo, in orari più diversi, giovani presenze femminili volteggiano su una
piazzola ai bordi della strada. Sono "passanti" come le definisce la
letteratura (Beaudelaire) e una canzone di De André e Brassens di molti anni
fa. Passano lì per caso, in attesa di qualche obolo in cambio di prestazioni.
In auto o da qualche parte. Si vende e si compra un briciolo di fugace
felicità. Proprio in questi tempi di rincorsa al tempo libero, dove un esercito
di vacanzieri, nonostante la crisi, si mette in viaggio: "infelici che si
affidano all'industria della felicità" come ha scritto qualcuno a proposito di
crociere e di villaggi organizzati. Mentre loro, le lucciole, le "belle di
giorno" (come nel film di Bunuel) sono arrivate anche su queste strade un tempo
sterrate, su questi anfratti di civiltà. Saranno pure un sintomo di benessere
quelle presenze su quelle strade? Vorrà dire che da queste parti ci si muove,
ci sarà consumo e quindi c'è consumismo. Pasolini negli anni '70 scriveva della
scomparsa delle lucciole (ma quelle vere, i coleotteri) quale segno del
crescente inquinamento dell'aria e dell'acqua. Da noi, metaforicamente,
arrivano, nell'imbarazzo di una mamma che non saprebbe come spiegarlo al
proprio bambino di dieci anni.
Eppure,
nonostante il carico di sfruttamento, di illusioni svendute, di mortificazioni
al femminile specie in quelle espressioni come "il mestiere più antico del
mondo", sarà il caso di guardare oltre la presenza delle "passanti", senza
analizzarne noiosamente il fenomeno. Ci sono, attendono che qualcuno arrivi, si fermi e le contatti.
Sono là, inconciliabile ritenuta del tempo. Così cantava De André:
"Immagini care per qualche istante /
sarete presto una folla distante /scavalcate da un ricordo più vicino / per
poco che la felicità ritorni / è molto raro che ci si ricordi / degli episodi
del cammino."
Intanto
pure a Potenza si organizza la selezione per il programma televisivo Grande
fratello. Chissà se quella mamma avrà lo stesso imbarazzo a descriverlo al suo
bambino.
La Giornata mondiale dei rifugiati in
Basilicata (Armando Lostaglio)
Sono
sessant'anni giusti (era il 20 giugno del 1961) da quando venne istituita la
Giornata mondiale dei rifugiati, delle vittime di guerra e di persecuzioni.
Tema quanto mai attuale per la nostra comunità, viste le sconvolgenti immagini
di Palazzo San Gervasio, recentemente trasmesse (anche loro "clandestinamente")
dall'Espresso, e poi dai diversi siti sulla rete.
Non
è la Lucania terra di respingimenti, fanno bene le istituzioni locali a
ribadirlo, è terra da sempre di accoglienza, pur contemplando le giuste regole.
E' terra di cristianità profonda e radicata nella cultura contadina. "Ero
straniero e mi avete accolto" si cita nel Vangelo, e la Basilicata accetta
profughi e badanti, manovalanza stagionale e commercianti da decenni ormai, vi
si inseriscono etnie Rom già dall'inizio del secolo scorso: Melfi è stato un
esempio da più parti apprezzato.
Non
già clandestini ma inseriti nel tessuto sociale con quel minimo di
compatibilità etnica che pur va dato atto e rispetto. Un giovane magrebino di
Rionero da anni ha messo su un negozio di abbigliamento, richiamando (come
facevano i nostri migranti) parenti ed amici. La signora rumena ha un negozio
di lavanderia ed è attiva pure come sarta. Non più tristi "ragazze dell'Est"
(della canzone di Baglioni), ma inserite e talvolta ben volute. Non mancheranno
nell'inventario pure quelle donne che soggiogano i propri "datori di lavoro". E
poi i cinesi, commercianti attivi che aprono negozi e punti vendita in più parti della regione.
Sono
partiti da lontano, tutti, alla ricerca di nuove fortune. Li ricorderemmo nelle
note e parole di canzoni esemplari, come "Nero" di De Gregori (da "Terra di
nessuno", 1987) e la più recente "Pane e coraggio" di Ivano Fossati. Un film ne
racchiude altri sul tema integrazione: è quello del franco-tunisino Abdel
Kechiche, "Cous cous", evangelico e riflessivo, amaro e sagace.
Monticchio: la primavera si pecchia
nei Laghi (Armando Lostaglio)
Monticchio.
La primavera si riflette nei Laghi: uno specchio d'acqua che si colora di
verde, il più intenso. C'è un bel profumo di roveri e faggi, tutto
intorno. Nelle acque galleggiano i fiori
della ninfea: è la Ninphea alba
presente solo in questi laghi, una pianta dai lunghissimi steli, che affonda in
acqua e forma in superficie un seducente manto di fiori bianchi: sembrano
camelie tra foglie verdi, larghe e rotonde. Qui si può coniugare il bello e il buono. Si può in questa terra, angolo semplice
di superba natura. La primavera soprattutto, e poi l'estate, sono il capolinea
della sua rinascita, una esplosione di profumi e di colori, fiori e piante
rinverdite come per una festa. E poi le rive dei due laghi, occhi attenti e
astuti, il Piccolo e il Grande, così chiamati come i figli di un'unica madre.
Monticchio è il bacino dei laghi vulcanici, luogo ameno e vocato alla grazia,
all'armonia. Il punto di arrivo di un viaggio nel verde dei pascoli e nel
giallo delle ginestre, macchie sanguigne di papaveri: il punto d'incontro,
l'apoteosi dei colori riaccesi in primavera. I luoghi circostanti fanno da
preludio: dalla valle dell'Ofanto risalendo verso Rionero, il borgo di Monticchio
Bagni: è quello delle antiche terme, e quindi la frazione di Sgarroni, poi quella
di San Martino, la collina del Castello di Monticchio, celebrato nei loro
scritti da Enzo Cervellino e da Padre Palestina. Nei dintorni della collina si
custodisce la Bramea, unico esemplare di farfalla in Europa che lo scienziato
Hartig, venuto da lontano, identificò in quella fresca sera di primavera del ‘63.
I percorsi dei Briganti che videro a capo il generale Carmine Crocco si
inerpicano vertiginosi sopra l'abbazia di San Michele, fino alle fontane
disseminate sul Vulture, fra grotte ed anfratti. E' bianca ed austera l'abbazia
che custodisce le grotte di San Michele: si riflette nel Lago Piccolo come una
sirena che si allunga discreta e appare un po' narcisa. Ai piani inferiori è
stato realizzato da qualche anno il Museo di storia naturale, ma non sempre si
offre la visione ai visitatori, molti ne ignoreranno pesino l'esistenza. Ovunque,
a cadenzare il paesaggio, sono le vigne e gli ulivi, fra i paesi adagiati sulle
alture vulcaniche, dominati, come vedetta naturale, dal massiccio del Vulture.
A planare su tutto nibbi e falchi, e ancora uccelli rari che migrano e che
ritornano, volteggiano fra le nuvole che cangiano spesso sopra a Sgarroni, di
un verde intenso che qualcuno ha definito l'Irlanda in Lucania; da qui si
aprono quegli orizzonti paralleli di montagne indefinite verso l'Irpinia, oltre
il Toppo di Castelgrande e i passi e le gole fra le foreste care ai briganti. In questi
periodi si consuma quella sorta di invasione che comunemente
chiamano turismo. Ma qui ben altro dovrebbe essere il culto, verso un luogo che
merita la visita come si fa ai santuari. Perché questo è un santuario della
natura, e della storia che si coniuga con l'arte: le Mura di Sant'Ippolito, la
Badia di San Michele, i resti del Castello di Monticchio, sulla collina fra
camminamenti naturali quando si va per asparagi in primavera; i pascoli e le
sorgenti, ed ancora l'odore del pane dei borghi, fra gente ancora generosa. I
marchigiani sposati ad aviglianesi, melfitani e rioneresi. Questo è ancora
Monticchio, dove ad accogliere l'uomo moderno è tuttavia un traffico di persone
rumorose e di suoni che non conciliano con le armonie della natura. Solo le
sinfonie di Beethoven dovrebbero trovare spazio in questo luogo comune dello
spirito, musiche diffuse dalle cime circostanti, per dare pienezza alla grazia,
alla bellezza.
La generosità della natura dai colori lussureggianti
che in primavera trovano l'apoteosi, questa può essere l'eredità di questo
luogo che dovremmo soltanto saper meritare.
Quando c'era Monticchio (Armando
Lostaglio)
Quando
Monticchio era la località turistica della Basilicata, forse l'unica, non c'era
il Pollino, non c'era Pietrapertosa, non c'era molto altro in questa regione.
Ovvero, non si sapeva del valore potenziale che potessero esprimere. Negli anni
Sessanta, Maratea era nota solo ad un certo turismo elitario grazie a Santa
Venere, quella elegante residenza liberty sospesa sul mare, ma era solo per i
milionari dell'epoca, con serate modello "una rotonda sul mare" di Fred
Buongusto e vip (come si direbbe oggi).
Matera
era stata invece scoperta da Pasolini per il set del suo mistico-popolare
"Vangelo secondo Matteo", ma rimaneva ancora un problema urbanistico, lungi da
possibili valorizzazioni turistiche e culturali. La costa jonica lucana era
ancora alle prese con situazioni da post-riforma agraria, paesi in via di
ripopolamento e meno che mai da vocazione turistica. Le cittadine storiche come
Venosa e Melfi non ricevevano che qualche visita da gite scolastiche. Tutto
molto in ombra, in via di emancipazione. Un panorama alquanto conciso, in una
regione ricca di verde e di cui certamente il monte Vulture e la sua "perla"
sui due Laghi vulcanici rappresentavano una rarità. Al punto che degli
imprenditori illuminati si inventarono una funivia che conduceva dai Laghi fino
alla sommità del monte Vulture: un viaggio sospeso nel vuoto di una ventina di
minuti. Uno sguardo lontano, e non solo geograficamente ma anche
imprenditorialmente, quando siamo solo nei primi anni Sessanta. Da oltre mezzo
secolo dunque Monticchio è stato visto dal basso in alto, e la funivia non è
solo una metafora. Oggi si si ricorda di questo luogo solo per quel turismo di
massa e dei "resti immondi" del dopo Pasquetta e dopo Ferragosto.
"Quel
che resta del giorno" (mutuando il titolo di un film d'autore) sono solo gli
avanzi (se non le macerie) di decennali incapacità amministrative quanto
imprenditoriali, in una parola di suppellettili di politiche di sviluppo o
presunte tali, a partire dalla Regione. Un luogo, Monticchio, che sarebbe
bastata una soltanto delle sue innumerevoli potenzialità che altrove avrebbe
creato le condizioni di una ben più visibile consacrazione. Sarà il caso di
elencarle? No, non ne vale la pena, lo abbiamo fatto troppe volte in questi
anni: chi vuole se le cerchi sulle enciclopedie o (più modernamente) sui siti
web.
Sopra le medie stagionali (Armando
Lostaglio)
E'
lo slogan d'apertura della meteorologia e dei suoi santoni, parlare delle
temperature sopra le medie stagionali. O, al contrario, quando nevica (che
rarità), al punto da aprire i notiziari con immagini consuete, di repertorio ormai.
Come quelle delle lunghe code in autostrade in questi giorni di esodi biblici e
di bollini colorati: il rosso e il nero come in Stendhal.
Ma
chi avrà avuto l'idea geniale di inventare le vacanze d'estate? Chi avrà deciso
per tutti che è normale incolonnarsi per decine di chilometri durante l'estate
dei bollini a colori? Un esercito di
vacanzieri che, nonostante la crisi, si
mette in viaggio: "infelici che si affidano all'industria della felicità". Sarà
normale tutto questo, persino per coloro che decidono di amare il tempo
liberato piuttosto che quello libero. Una differenza apparentemente lessicale,
che riecheggia quella calda voce di Bruno Martino quando (in controtendenza)
cantava "Odio l'estate". Ma no, non si può odiare (se non per l'amore perduto)
questa stagione che consente di godere del sole, del mare e dei monti, senza maglioni e cappotti, che lascia
asciugare la biancheria in meno di un'ora, che fa riscoprire le nudità senza
sentirsi osceni.
Ancora
immagini di film semisconosciuti si addensano: "Domenica d'agosto" del
compianto Luciano Emmer che, nel 1950, era capace (come pochi) di trasferire
l'esperienza del neorealismo nella commedia. Film supremo, un bianco e nero di
alta scuola. E sempre di calure estive e di conseguenze bizzarre, è quel
gioiello del regista austriaco Ulrich Seidi col suo "Canicola" (Hundstage),
quando lo presentò (e vinse) a Venezia una decina di anni fa. E' il concetto
stesso di vacanza da ripensare, dunque, è quel sentirsi apparentemente evoluti
solo se si va in ferie, e nei posti sempre più alla moda. Massì! evoluzione
sarà anche questo, sentirsi nella massa, e scopritore della propria
individualità. Ma non è che avesse ragione quell'anarchico gallese, tale Gafyn
Llwgoch, quando, in un sussulto di lungimiranza tanti decenni fa, annunciava
che "il socialismo perderà perché il capitalismo convincerà i servi di essere
padroni"? L'auspicio
di mezza estate è di indurci davvero "sopra le medie stagionali", superando il
tempo e le temperature.
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