I continui
grandi doni di LOSTAGLIO
La
rappresaglia di Marchionne
Se non di
rappresaglia di cosa si tratta? Diciannove operai da riassumere in Fiat a Pomigliano
(contro la sua volontà, perché sindacalizzati) contro altrettanti diciannove da
mettere in mobilità, ovvero da mandare prima o poi a casa. E' un'autentica
rappresaglia, come facevano i nazisti durante la guerra (uno contro dieci),
cambiano solo le proporzioni.
Siamo ad un livello di pessima gestione umana
prima ancora che aziendale: e qui non sono solo i numeri o le motivazioni delle
relazioni industriali a giustificare la pessima ipotesi del capo della Fiat;
persino alcuni esponenti del governo Monti se ne sono (finalmente) accorti, pur
lanciando timide invettive. Chi conosce gli operai della Sata di Melfi, per
esempio, sa con quanta abnegazione da decenni ormai vivono la loro nuova
condizione operaia, sapendo di essere sempre alle prese con una spada di
Damocle su di loro, che sa di cassa integrazione o di accettazione pur passiva
degli eventi interni all'azienda. Chi li conosce sa di che tempra siano.
Inghiottono tutto, anche le colpe di una azienda che non fa ricerca e non
innova il proprio parco auto, mentre scarica sugli operai le proprie presunte
perdite.
No, quegli uomini e quelle donne non meritano tali trattamenti, atteggiamenti
che il capo supremo (e la storica Famiglia) sciorinano apparendo grotteschi
agli occhi del mondo. Gli stessi occhi che hanno guardato all'Italia con grande
rispetto, e alla sua storica tradizione di lotte operaie e contadine con quell'attenzione
sociologica ed umana, nel nome della solidarietà collettiva. Una nazione, la
nostra, che ha sopravvissuto a denigrazioni e rapine di ogni tipo, mantenendo
sempre alta la propria dignità, anche quando in moltissimi hanno dovuto
emigrare. Ma tutto questo a un Marchionne qualsiasi, nel pieno della sua
arroganza di potere, può sfuggire. Altrimenti non lancerebbe tali ignobili ricatti.
Armando
Lostaglio
L'autunno per
noi
Sa di tempo
che passa l'autunno, inesorabile, quasi insopportabile, malgrado i colori che
offre alla vista siano decisi e forti, ineluttabili come il cielo quando decide
di piovere. Emana una certa nostalgia, perché l'orologio del tempo si riannoda
su se stesso e il crepuscolo si avvicenda e cede il passo ad un anno che
finirà. Un profumo di incenso, che sa di antico e di profano, un segno del
nuovo che ancora attende, mentre ci adottano i versi del poeta lucano Giulo
Stolfi che, ne "Il peso del cielo", scrive: I miei passi soltanto sono vivi /
nel silenzio inquietante della notte aperta di colpo / in arene di biacca. / Vecchio vicolo amico / dalle macerie
degli anni / per incanto riappari ma i tetti / sopportano a stento / il peso
del cielo (...) non vedo i gerani le viole / la menta alle finestre (...) / Mi
veglia un angelo affranto / ora che è liscia, affilata / la guancia della luna."
E' sempre la
poesia, dunque, a raccontarci il disagio del tempo che vola su di noi, con
un'invincibile frequenza, mentre a noi tocca "sopravvivere a stento". Eppure i sogni dell'adolescenza ci
promettevano altro. Ci proiettavano oltre. Futuri incerti ma vivaci e talvolta
estremi. Questo ci promettevamo. Mai avremmo pensato di delegarlo il futuro, a
gente così incauta, incolta, relegata alla cronaca misera di questo quotidiano
e che non sa programmare il divenire se non che per i propri personali
interessi. Non prende mai a costoro quel senso di crepuscolo che sappia
guardare alla guancia della luna, non hanno "angeli affranti" a vegliare su di
loro. Mai avremmo immaginato che avremmo delegato il futuro a questi sventati
attori senza scena. Occulti protagonisti che decidono da troppo tempo sulle
nostre vite, che però odorano di pietra inerte e polverosa.
E' passato
alla Mostra di Venezia un film straziante, "La cinquième saison" (La quinta stagione, di Woodworth e Brosens,
fiamminghi), che nel grigio disegna un futuro nel quale le stagioni si
ribellano all'uomo. Struggente e riflessivo, di quei film che i Fiorito e
simili non vedranno mai, perché non lo
capirebbero. Alberi senza frutti e aurore senza luce hanno programmato (come in
quel film) questi personaggi per le generazioni a venire. Abbiamo delegato a
troppa gente e per troppo tempo le vite di generazioni di onesti corridori di
corse in salita.
Malgrado
tutto, anche quest'autunno ci avvolgiamo nel languore di un tempo che passa, ma
che può essere ancora nostro, che può ancora raccontarci e farci intravvedere
luce nuova. In questo tempo sbandato, pietoso e pur romantico. Si può uscire
dalla "normalità eterna" imposta da un'egemonia senza volto? E' l'autunno del
nostro tempo a farci guardare bagliori di futuro, nonostante l'inverno incomba,
e le stagioni continueranno ad avvicendarsi. Ci salveremo, è un augurio,
dall'avvento della quinta stagione.
Armando
Lostaglio
Il tempo
delle lucciole
Corre veloce
quella mamma alla guida della sua utilitaria.
"Mamma,
mamma, cosa fanno quelle ragazze sedute su quel muretto?"
La domanda è
un po' inattesa ed imbarazzante, così la donna risponde: "Prendono il sole".
"Ma come, il
sole per strada, e poi su quel muretto?" ribatte ancora il bambino incuriosito
al fianco della donna. Risponde senza soffermarsi, l'auto passa su quella
statale prima dell'imbocco della galleria a San Nicola. Ne passano di auto e
mezzi pesanti su quella superstrada; collega il capoluogo lucano alla parte più
a nord della regione, corre verso il Vulture e le autostrade. E da qualche
tempo, in orari più diversi, giovani presenze femminili attendono su una
piazzola ai bordi della strada. Sono "passanti" come le definisce la
letteratura (Beaudelaire) riprese da una canzone di De André e Brassens di
molti anni fa. Passano di là non per caso, in attesa di qualche obolo in cambio
di prestazioni. In auto o da qualche altra parte. Si vende e si compra nel
minutaggio di un briciolo di fugace felicità.
Proprio in questi tempi di
rincorsa al tempo libero, dove un esercito di vacanzieri, nonostante la crisi,
si mette in viaggio: "infelici che si affidano all'industria della felicità"
come ha scritto qualcuno a proposito di crociere e di villaggi organizzati.
Mentre loro, le lucciole, le "belle di giorno" (come nel film di Bunuel) sono
arrivate anche su queste strade un tempo sterrate, su questi recessi di
sviluppo. Saranno pure un sintomo di benessere quelle presenze su quelle
strade, scampoli di civiltà presunta. Vorrà dire che da queste parti qualcosa
pur si muove, ci sarà consumo e consumismo. Pasolini negli anni '70 scriveva
della scomparsa delle lucciole, quelle vere, i coleotteri, una scomparsa quale
segno del crescente inquinamento dell'aria e dell'acqua. Da noi, metaforicamente,
arrivano, nell'imbarazzo di una mamma che non saprebbe come spiegarlo al
proprio bambino.
Eppure,
nonostante il carico di sfruttamento, di illusioni svendute, di mortificazioni
declinate al femminile specie in quelle espressioni come "il mestiere più antico
del mondo", sarà il caso di guardare oltre la presenza di quelle "passanti"
vicino alla galleria, senza voler analizzare
noiosamente il fenomeno. Ci sono, attendono che qualcuno arrivi, si
fermi e le contatti. Sono là, come una inconciliabile ritenuta del tempo.
Così cantava
De André:
"Immagini
care per qualche istante / sarete presto una folla distante /scavalcate da un
ricordo più vicino / per poco che la felicità ritorni / è molto raro che ci si
ricordi / degli episodi del cammino."
Armando Lostaglio
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