I DONI DI LOSTAGLIO: i Taviani
e Dalla; i lucani in Tv: Crocco e Papaleo; e poi Sanremo, videopoker e
schedine, vivibilità e "anticittà"
Il trionfo dei
fratelli Taviani a Berlino 2012
Sono di quelle notizie che riconciliano con l'arte vera e
pura, con il coraggio di osare e di sentirsi portatori di emozioni. Il 62°
Festival del Cinema di Berlino ha appena conferito l'Orso d'Oro a Paolo e
Vittorio Taviani per il film "Cesare deve morire", liberamente ispirato al
Giulio Cesare di Shakespeare e girato come un documentario in bianco e nero con
i detenuti del carcere romano di Rebibbia.
La notizia sovrasterebbe ogni cosa
nel mondo della cultura nazionale e non solo, se non fosse in atto lo stordimento da canzonette e
sfide al pudore perpetrate dalla lunghissima kermesse sanremese, evento
mediatico senza pari nell'italietta delle convenzioni. Erano 21 anni che
l'Italia non vinceva questo importante premio. Nel 1991 se lo aggiudicò il
compianto Marco Ferreri, munifico autore di opere controverse ed imperiture,
con il film "La casa del sorriso", una storia d'amore fra anziani ambientato in
una casa di riposo: interprete l'immensa Ingrid Thulin, una delle muse di
Ingmar Bergman e del cinema svedese. Tutti nomi di un'epoca che non c'è più,
che hanno scritto la storia della cultura mediante il cinema d'autore. Anche
per questo occorre esaltare questo Orso d'oro al nostro cinema, con autori che
da oltre cinquant'anni si ostinano, come i fratelli Taviani, a portare sul
grande schermo storie e sensazioni che fanno epoca, con riconoscimenti
internazionali, quelli che non arriveranno mai per quei (tanti) film nostrani
che, benché incassino molto, dopo che si è usciti dalla sala non rimane un solo
fotogramma impresso nella memoria. Un mirabile riconoscimento per il cinema
italiano, dunque, questo per i fratelli Taviani, cui si aggiunge la presidenza
della giuria a Nanni Moretti all'imminente Festival di Cannes. E sarà proprio
la Sacher di Moretti a distribuire il film a fine febbraio.
"E' un premio che
riempie di gioia - ha commentato Paolo Taviani - soprattutto per
chi ha lavorato con noi. Sono i detenuti di Rebibbia guidati dal regista Fabio
Cavalli che li ha portati al teatro. Questi detenuti-attori hanno dato se stessi
per realizzare questo film e ci fa
piacere vincere un premio al festival di Berlino che non ha un indirizzo
generico ma che al contrario ha un carattere molto specifico: cerca forze nuove
e cerca forze che si appassionino a tematiche sociali. Questo film combina
tante cose - ha continuato - Shakespeare entra dentro Rebibbia. E io penso che
questa esperienza forte ci rimarrà dentro sempre, anche come contraddizione, e
comunque come grande momento di qualità''.
Ad autori di grande esperienza come gli ottantenni fratelli
Taviani, si aggiunge anche il premio del pubblico nella sezione Panorama di
Berlino attribuito al giovane Daniele Vicari per il film "Diaz, Non pulire
questo sangue". Il film racconta le terribili vicende di violenza avvenute
nella scuola Diaz durante il G8 di Genova del luglio 2001. Una piaga
evidentemente ancora aperta. Vicari presentò a Venezia nel 2006 "Il mio paese"
documentario sulle trasformazioni socio-economiche del nostro paese.
Paolo e Vittorio Taviani approdarono al cinema nel 1960 come
aiuti registi insieme a Tinto Brass del grande Joris Ivens, che ha girato anche
in Basilicata, per conto di Enrico Mattei, il documentario "L'Italia non è un
paese povero" sulla nascente epopea delle estrazioni di metano. Il primo film dei
Taviani è del 1967 "I sovversivi" con il quale anticipavano gli avvenimenti del
1968. Molti i loro film di successo, mentre il riconoscimento mondiale è
arrivato con la Palma d'oro a Cannes nel 1977 per "Padre padrone" ritenuto un
film cult. (Ma al Tg1 delle 13,30 ai fasti del festival dei Sanremo
oltre 10 minuti di servizi e collegamenti; alla vittoria della cultura
cinematografica italiana a Berlino appena trenta secondi. Un provincialismo
inguaribile, deteriore come un film natalizio).
Armando Lostaglio
A Lucio, una
settimana dopo
Dorme sulla collina Lucio, dopo i clamori e le canzoni ad
ogni ora per ricordarlo, dopo le polemiche e le dissertazioni moralistiche. Ora
si può meglio rievocarlo Lucio Dalla, eroe di
semplicità e di coraggio, quel cantore di sentimenti lontano dai luoghi
comuni. Ora che è davvero come "le rondini", saprà (come cantava) "...da dove
viene ogni tanto questo strano dolore / Vorrei capire insomma che cos'è l'amore
/ Dov'è che si prende, dov'è che si dà".
Ma forse già conosceva i meandri dell'amore, lungi da
compromessi e ipocrisie. Lungi da quel bigottismo (di sinistra?) della Lucia
Annunziata che, nel suo programma, in diretta con i funerali di domenica
scorsa, ha avuto la sfrontatezza e la baldanza di intervistare due giovani
omosessuali, chiedendo loro persino (in maniera a dir poco ridicola) quanti fossero
gli omosessuali non dichiarati nel proprio ambiente di lavoro. Una padrona del
video che involontariamente sa essere ad un tempo comica e impudica, con la
mania di superare l'asticella della sfida, sempre e comunque. Non ha provato
alcuna vergogna ad "interpretare" quel funerale nella provocazione più acuta.
Anche altri hanno scritto di omosesssualità magari solo perché a Lucio fosse
stata concessa la chiesa maggiore della sua città, con tanto di omelie e ricordi da
parte del suo compagno in lacrime.
Nessuna pietà da parte della ennesima
padrona della Rai, dunque, che da bigotta mette in luce la omosessualità
(peraltro dignitosa) di Dalla, nel momento più infelice. La stessa Annunziata
che qualche anno fa, sempre nel suo inossidabile programma (in mezz'ora) fece
fare un figurone persino al premier Berlusconi che andò via dalla trasmissione
perché non se ne poteva più (come per gran parte dei telespettatori) della sua
arroganza. La stessa Annunziata che ha trattato il funerale di Dalla
"insensibile alla bellezza, indifferente al dolore". E intanto continuiamo a
sorbirci questi nuovi "padroni" dell'etere, che entrano pure nella parte dei
disincantati, degli anticonformisti "fuori dal gioco", inconsapevoli che fra
lei e un Vespa e un Fede la differenza può essere minimale, ma nella comicità
involontaria sono sul medesimo piano. Insensibili alla bellezza (come di una
poesia dalla voce di Dalla), indifferenti al dolore, in nome degli ascolti, a
chi la spara più grossa.
Alla Annunziata consiglieremmo due film: uno interpretato da
un allora sconosciuto Lucio Dalla in una storia drammatica, che tratta sullo
sfondo di omosessualità (al femminile) quando siamo solo nel 1967: "I
sovversivi", primo film dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani, trionfatori a
Berlino poche settimane fa. In quel capolavoro, insieme a Giulio Brogi, recita
pure la moglie-musa del poeta Quasimodo, Maria Cumani. Film sostanziali nella
storia del Cinema, come rimarrà un altro gioiello, passato in concorso a
Venezia tre stagioni fa: "A single man", che segna l'esordio alla regia dello
stilista Tom Ford. Un portento di dolcezza pur trattando un tema segnato da una
tragedia. Protagonista un maestoso Colin Firth, premiato quale miglior attore
di quella Mostra.
Alla Annunziata, come a Fede o a Vespa, e tante aride figure
di dannoso potere mediatico, mancano quelle sequenze, quei momenti di bellezza.
E dei versi infiniti come quelli di Lucio: "...E con la polvere
dei sogni volare e volare / Al fresco delle stelle, anche più in là..."
Armando
Lostaglio
Quanta Lucania in Tv:
la neve, Crocco, Papaleo
Chissà come il compianto Beniamino Placido avrebbe "letto" tutta questa
lucanità in televisione in questi giorni, che non è solo Sanremo con Rocco
Papaleo alla co-conduzione ed Arisa che canta un bel brano. Crediamo che il
Festival della canzone italiana di oggi, da qualche lustro in qua, non
so quanto avrebbe appassionato Beniamino Placido, con disquisizioni più o meno
dotte secondo il suo stile. Vi avrebbe assistito (al netto delle polemiche su
Celentano) come un pesce fuor d'acqua, un po' come lo sarebbe stato Pasolini
almeno da "Mani pulite" in poi. Una Basilicata che si mette in luce su
palcoscenici tv da milioni di spettatori (con Papaleo ed Arisa, appunto). Una
regione mai così alla ribalta come in questi giorni: aggiungeremmo le
abbondanti nevicate da apertura dei tanti Tg nazionali, aggiungeremmo la
fiction edulcorata e oleografica su Carmine Crocco. Proprio su questo colorato
sceneggiato tv diretto da Paolo Poeti, che tanti commenti ha scatenato, pur non
entrando nel merito delle tediose questioni (realtà storiche travisate,
occasione perduta), va detto subito che rientra pienamente nel linguaggio delle
fiction della domenica sera, dolcificate e senza
quelle pretese di assolvere ad un ruolo didattico e artistico cui la Tv di
Stato pur dovrebbe dar conto. Una operazione così è di certo una "occasione
perduta" (ha commentato l'amico storico Ettore Cinnella), ma va benissimo per
questa Rai alla continua ricerca solo della competitività sugli ascolti: quei
bei visi di attori-modelli, con i costumi sempre puliti come i capelli di chi
li indossa; e poi le graziose location al netto di coordinate spazio-temporali
(appena citata in un dialogo Rionero, teatro degli eventi). Tutti effetti da
buona fiction, buoni solo per contrapporre allo strapotere e al
linguaggio della De Filippi, dall'altro lato della frontiera. Per il resto, da
lucano e concittadino del Generale dei Briganti, va detto che la sua storia
spesso tinta di mito ha raccontato ben altro, in
maniera anche più atroce. Tuttavia, nell'insieme quella fiction non fa una
piega, secondo una logica aziendale (Rai) cui evidentemente non interessa
spendere soldi in operazioni davvero culturali: una regia accettabile ed
interpretazioni nei limiti della recitazione da domenica sera; quanto al
dialetto è stato violentato, il lucano non è mai lucano: o tende al napoletano
o al pugliese (ma quello stretto chi lo avrebbe compreso?). Una crisi di
identità, dunque, che viene da lontano. Anche per questo siamo grati alla personalità
di Rocco Papaleo che sa restituire, durante questo festival, dignità (anche
linguistica) ad una intera comunità dentro e fuori la regione, con la sua
leggerezza e la sua cultura. Merita il successo che ha Rocco, venuto dalla
gavetta (perché ai lucani non si regala nulla, specie nello spettacolo). Alla
sagacia di Rocco che prende per mano questa kermesse dalle mille polemiche
(tanto per cambiare, ma fa bene all'audience), a Rocco uomo di spettacolo che
si candida a diventarne emblema completo (attore-regista-cantante-conduttore...),
a Rocco lasciamo questi versi di Sandro Penna, credendo che possano aiutarci ad
uscire da un inguaribile provincialismo: "La vita... è ricordarsi di un risveglio
/ triste in un treno all'alba: aver veduto / fuori la luce incerta: aver
sentito / nel corpo rotto la malinconia / vergine e aspra dell'aria pungente. /
Ma ricordarsi la liberazione / improvvisa è più dolce..."
Armando
Lostaglio
"Il cappotto" di Gogol sui lucani
"Il cappotto" è un racconto apparentemente leggero che l'ironico
scrittore ucraino Nikolaj Gogol scrisse meno di due secoli fa. Lo porterà sullo
schermo Alberto Lattuada (nel 1952) che dalle fredde strade pietroburghesi lo
traspone nelle nebbie pavesi anni Trenta. L'impiegato Akakij di Gogol è a Pavia
un immenso Renato Rascel (premiato pure al Festival di Cannes) nei panni
dell'impiegato comunale De Carmine, che vive a pensione in una modesta
cameretta. Il suo magro stipendio non gli permette di comprare il cappotto
nuovo di cui avrebbe bisogno. Quando gli si presenta l'occasione di guadagnare
un po' di più, non senza sacrifici, De Carmine ordina subito un cappotto su
misura. Ma glielo ruberanno, e l'impiegato, pur avendo chiesto giustizia, ne
morirà dal dolore: complice l'indifferenza delle istituzioni. A mutuarlo per lo
schermo contribuì, insieme al regista, a Zavattini e Malerba, anche il "nostro"
Leonardo Sinisgalli. E' un bianco e nero piuttosto "svincolato" dal neorealismo
di quegli anni, ispirato da un racconto fantastico ed amaro, dove persino la
tragedia del povero impiegato viene tratteggiata da Gogol con leggerezza e
bizzarria.
L'attualità di un classico la si può rileggere in una
qualsiasi situazione sociale ed individuale. Una rivisitazione del "Cappotto"
gogoliano la si può rintracciare, ad esempio, nella vicenda energetica e
industriale che la comunità di questa regione (la Basilicata) sta vivendo da
qualche decennio. Dalla venuta della Fiat a Melfi in poi, unitamente
all'inceneritore Fenice e ai suoi crimini ambientali; e toccando estrazioni
petrolifere ed economia dell'acqua. Nel racconto di Gogol (e poi di Lattuada)
l'impiegato onesto e corretto porta dignitosamente il suo cappotto ormai
consunto: può essere l'emblema di una comunità che conduce la sua decorosa
esistenza, sognando magari di poter fare un salto di qualità, di migliorare la
propria attesa di vita, confezionandosi a misura (perché no) un cappotto nuovo.
Che poi arriverà: con le estrazioni petrolifere? con la Fiat e i suoi nuovi
posti di lavoro? Con le acque di cui è ricco il territorio che riescono a
soddisfare anche la sete atavica dei vicini pugliesi? Chissà, eppure il sogno
di Akakij si realizza, come accade per la comunità lucana, ma nel racconto di
Gogol viene incidentalmente defraudato. Su tutto incombe la burocrazia che lo
scrittore descrive con realistica ironia. E chiama "personaggio importante" il
burocrate-potere, colui che infine sarà la causa del dolore del modesto
cittadino: personaggio-causa del sogno infranto al pari del furto, che lo
scrittore riscatterà con fantasia ed immaginazione, con il fantasma di Akakij
che si aggira fra i vivi rubando - con ilare vendetta - i loro eleganti
cappotti.
Siamo anche noi dunque l'impiegato Akakij-Rascel? Forse.
Coloro che si guadagnano la vita con probità e rettitudine, obbedendo a regole
anche non scritte. Coloro che pur ambendo ad un necessario riscatto, ricadono
nei limiti dell'ineluttabile "destino". Converrà rileggere (o rivedere) qualche classico ogni tanto,
fermando il tempo, ponderando e riflettendo sul nostro tempo, che vorrebbero
rubarci. Come quel cappotto.
Armando Lostaglio
Quei nuovi profeti
esagerati (nel prezzo)
Esagerato. Troppi sprechi. Lo ripetiamo da anni, ma in questi tempi
magrissimi
sembrano oltremodo una offesa gratuita, quella si, verso i contribuenti
onesti,
verso i sudditi di quella dittatura soffice con il sorriso a trentadue
denti.
All'imminente festival della canzone di Sanremo si sono accordati: al
guru
Celentano 750 mila euro e spazio libero per dire ciò che vuole; non
tanto per
cantare (magari lo facesse, è l'unica cosa che sa fare bene) quanto per i
suoi
monologhi da santone che lo spettatore attende con ansia come se
dovessero
cambiare le sorti del mondo. Per dire: no-alla-guerra,
puliamo-l'ambiente, i-politici-rubano e via proseguendo con
inesauribili luoghi comuni. E' un grande artista Celentano, è
indiscutibile,
uno dei grandi vecchi che hanno inciso (non solo sui dischi) la storia
del costume e non solo da mezzo secolo in qua. Come le canta
lui (le canzoni) non le canta nessuno.
Ma 750 mila euro sono troppo,
aggiunti
poi ai 250 mila per Benigni di qualche settimana fa, ai due milioni a
stagione
per Fazio, ai tremila a sera per tre minuti di esternazioni per Ferrara,
al
milione e mezzo a stagione per Vespa, e cifre tonde per l'onnipresente
Conti,
alle Clerici e Carlucci. E poi sprechi indefiniti per programmi
impudenti come
le "Isole" di idioti, dove li chiamano naufraghi, senza rispetto per chi
è
naufragato davvero in questi giorni. Basta, non se ne può più. Altro che
furbetti del quartierino o scilipotismi dell'ultima ora. Sembra che
questi
ultimi replicanti del potere abbiano solo la nomea, ma poi, nei fatti
concreti che
grondano euro, quelli li facciano altri, e con la visibilità e il
consenso
dell'audience. Il profeta Celentano lo sappia, gode della sua immunità
da
artista, di quelli che la crisi è solo una parola. Ma profeta (recita
l'etimo)
è chi è avanti (pro) e dice cose illuminanti, non le ovvietà mascherate
di
sentenze. Costano troppo questi epigoni del nulla in nome
dell'intrattenimento.
Armando
Lostaglio
Videopoker e
schedine, malattia sociale?
Ci si scandalizza se una modesta impiegata delle poste froda i propri clienti dell'ufficio e fugge
con centinaia di migliaia di euro per andare a giocarseli nei casinò. L'hanno
di recente beccata in Svizzera (e dove altrimenti), luogo deputato da sempre
quale custode di casse legali del Capitale mondiale. Ma non ci scandalizziamo
alla notizia che 800mila persone sono dipendenti di macchinette mangiasoldi, di
sale Bingo, lotterie e videopoker, diffuse ovunque. Dati recenti sparano cifre
impressionanti: a fronte dei gioco-dipendenti (proprio come una droga) sono a
rischio ben 2 milioni di persone. Numeri alla mano, con le dovute proporzioni,
in una regione piccola come la Basilicata, ad esempio, sarebbero circa
diecimila le persone coinvolte, ma forse il dato pecca per difetto, se è vero
che in ogni bar ci sono macchine infernali che divorano e tintinnano di
spiccioli in ogni istante.
Nel 2011 lo Stato ha incassato 76 miliardi di euro,
altro che finanziaria, con un utile di 18 miliardi ed un gettito fiscale di 9.
Numeri da capogiro, che "giustificano" l'accanimento pubblicitario nelle tv
generaliste e non solo, con il ritornello di un Italiano (vecchio successo di
Toto Cutugno), mutuato nel "lasciateci sognare con la schedina in mano..." Solo
che alla fine, per togliersi ogni scrupolo, si "consiglia" di giocare con
prudenza, senza esagerare. Ma come, incitano al gioco e poi, con un sussulto di
buona coscienza, frenano gli istinti all'arricchimento facile? Sono consapevoli
che schedine, lotterie e videogiochi rappresentano la nuova frontiera della
disperazione, in un'epoca la cui crisi è sventolata ad ogni ora. Sono
consapevoli i gestori delle bische che si alimenta quella "tossicomania da
fortuna" (come definiva l'azzardo un anarchico gallese, Llawgoch). E' di certo
consapevole il potere di Stato che si tratti di una malattia, come lo sono
tabagismo e alcolismo, ma nel nostro caso è "utile" a risollevare le sorti di
un Paese in crisi. Per questo ce la cantano sulle note dell'Italiano, ce la
rendono dolce quella malattia, tanto non ha ammazzato nessuno, come la coca,
illegale. Ma nello stadio successivo c'è l'eroina.
Ognuno è libero di ammalarsi come vuole e di cosa vuole, il
nostro sarebbe un sistema prosciolto da vincoli; allo Stato solo il compito di
limitare gli eccessi? Ma una malattia come il gioco e l'azzardo è un sintomo
che andrebbe letto ed inquadrato in uno stato sociale consapevole, ovvero nella
disperazione collettiva di chi non arriva al 15 del mese, o peggio di chi è
disoccupato. Converrà dunque cantare, farsi ammaliare dalla pubblicità occulta
dell'Italiano medio; l'importante è che
siamo consapevoli che la "fortuna (suggerisce il critico Giacomo Papi) è
ciò che resta quando il lavoro smette di essere il modo più sicuro di costruire
ricchezza". Non prendiamocela troppo con quella sfortunata impiegata
truffaldina, che pure un lavoro ce l'aveva: si è solo ammalata, suo
malgrado.
Armando Lostaglio
Vivibilità e
"anticittà"
Il concetto di vivibilità urbana è una tesi antica che
contrappone scuole di pensiero di architetti ed urbanisti, ma anche di
sociologi e persino filosofi. L'eccessivo inurbamento degli immensi
agglomerati, causato da ricerca di lavoro e relativo abbandono delle campagne,
non viene tuttavia riscontrato nei piccoli centri del sud, dove è invece la
"spoliazione" a determinare un nuovo andamento di vivibilità. Infatti i nostri
centri storici assistono sempre più ad uno stato di semiabbandono, causato da
nuovi concetti di condivisione urbana (l'appartamento o il villino autonomo) a
scapito dell'arcaico concetto di "basso" e di vicinato. In tutto questo,
l'abbandono indiscriminato anche da parte degli organi istituzionali preposti
al decoro urbano, non si giustifica in una logica di nuovo significato di
cittadina, specie per quelle considerate a misura d'uomo, meglio fruibili sotto
l'aspetto della condivisione quotidiana e della qualità della vita. Per questo
non può essere accettata la presenza di stabili fatiscenti che per lunghi
decenni impoveriscono il concetto di bellezza e talvolta sono anche causa di
pericolo incombente per la vetustà e la fatiscenza dei fabbricati. E' il caso
di alcuni angoli di Rionero, di Melfi e di altre cittadine anche più
piccole.
E' sulla logica della salvaguardai del patrimonio urbano e
di una conseguente evoluzione del tessuto sociale che si muovono associazioni
di una nuova cultura ambientalista e della sana vivibilità. Si è costituita
anche nel Vulture "Fare Ambiente" (Movimento Ambientalista Europeo), con lo
scopo di evidenziare (prima ancora che di denunciare) le discrasie non solo
simboliche quanto materiali che occludono e spesso offendono la bellezza del
patrimonio antico e quindi storico-culturale dei centri urbani, non in sintonia
con una rinnovata volontà di accettabilità della vita urbana più ampiamente
condivisa. L'auspicio di fondo parte da armonie ricercate fra centri storici e
ambiente naturale, arredi urbani e protezione di luoghi un tempo più salubri,
come Monticchio e il parco naturale del Vulture da troppo tempo auspicato, che
protegga specie floro-faunistiche sempre più a rischio.
Nel suo recente libro "L'Anticittà", l'urbanista Stefano
Boeri sostiene che "l'Anticittà che oggi
fa più paura non nasce dall'emarginazione e dalla rivolta, ma dalla
frammentazione e dalla dissipazione delle energie vitali che scorrono in ogni
ambito della vita urbana". Proprio per evitare ulteriori suddivisioni e dissipazione di
risorse, occorre che associazioni volte ad una rinnovata ricerca di
condivisione e di impulsi di identità collettive, possano ritrovarsi
all'unisono appellandosi ad un più vasto senso comune di civiltà, oltre i
bisogni di nicchia dettati da un potere che sempre più declina ed imbarazza per
incompetenza, prima ancora che per dolo.
Armando Lostaglio
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