Il Maestro di Papà di Salvatore Martire*
Quand'ero
piccolo e avevo dieci anni, vedevo scendere dalle parti della chiesa
cattedrale, lungo la via Roma, un vecchietto con i capelli bianchi e un bastone
lucente. Quando arrivava all'altezza del bar - ristoro (la cantina di zia Concettina)
che si trovava di fronte alla bottega di mio padre, lui si voltava e mi
sorrideva.
Ricordo che aveva ottant'anni e passa e mio padre che ne aveva cinquanta, mi diceva che il "sacro
vecchietto vestito di nero" era stato il suo maestro di scuola, il migliore.
Poi però, quando mi raccontava le sue esperienze scolastiche, mentre si stava
davanti al fuoco d'inverno come facevano gli Indiani d' America, aggiungeva
subito che c'era stato anche un altro maestro, al quale lui mio padre era
affezionato: don Nicola Fasolo l'arciprete che definitiva come persona molto ma
molto istruita. Ma torniamo al vecchietto col sorriso. Io lo salutavo ogni
volta, anche perché era una persona simpatica, nonostante avesse un aspetto
misterioso.
Era risaputo infatti che amasse raccontare delle storielle
originali. Appena mio padre accennava: "Il maestro Vincenzo Cristiano ha
detto...", cominciava per me un racconto fantastico. Il personaggio
principale usciva dalla storia e animava la mia fantasia, cavalcando monti e
praterie del vecchio west, per poi
salire sul colle di San Rocco e girare dietro la Rabatana, quasi fossi un
uccello preistorico che volasse nella mitica "Vall' i Cann", dove
Lazzaro, il mio compagno più grande di me di due anni, ci era già stato. Allora
quando il maestro passava davanti alla bottega, io uscivo dal portone,
scavalcavo la cunetta, attraversavo la strada ed andavo a salutarlo. Lui, il
maestrino dai capelli bianchi ed il vestito nero, si fermava, mi riconosceva,
sorrideva ed io contento gli baciavo la mano, come si faceva all'uscita dalla
chiesa con mons. Pasquale Quaremba, allora vescovo della diocesi di Anglona -
Tursi, nel giorno di Pasqua.
A
dire la verità, a quei tempi di magra monetaria
(c'erano in abbondanza solo fichi neri), il giorno di Pasqua noi bambini
andavamo nelle case di amici e parenti, per baciare la mano e loro poi
ci
davano i soldini. Ma io baciavo la mano al maestro perché lui
somigliava al patriarca Aronne il fratello di Mosè. L'ho visto nel
film " I dieci comandamenti" di Cecil De Mille. Insomma ero contento
di vederlo. Mio padre mi raccomandava sempre: "Quando incontri il
maestro
Cristiano, gli devi baciare la
mano". Ero sicuro che quando lo toccavo tutto il sapere del mondo
passava dalla sua mano ed entrava nella mia
mente. Lui mi guardava con i suoi grandi occhi senza occhiali, mi
sorrideva ed
io gli dicevo che ero il figlio del falegname.
Lui
domandava: Ah, mi ricordo mi ricordo e adesso che fà?
-
Sta lavorando. Fa: "ammacca ammaca, alliscia al liscia", e poi escono le porte.
E
lui: "Ah, bene! bene! Salutalo da parte
mia". E se ne andava "di pennino", credo al tabacchino a comprare i
sigari. A quei tempi le persone importanti fumavano il sigaro toscano. Questo
me lo aveva detto cumpa Giuanne il giorno che ero dal barbiere suo figlio.
Diceva che don Andrea, un grande giurista del tempo che fù che viveva a Roma,
quando veniva a Tursi a trovare i parenti, fumava il sigaro toscano. Don Andrea
era stato alunno del maestro Cristiano ed era un magistrato. Quando passeggiava in via Roma assieme a qualche
nobile suo parente, le persone lo salutavano e chiedevano: "Come andiamo?" E
lui prendeva il sigaro, faceva cadere la cenere toscana per le terre tursitane
e rispondeva: "Comandiamo tutta
l'Italia".
Erano
gli anni Cinquanta e chi aveva fatto la domanda non avendo compreso nulla di
quella risposta, chiedeva spiegazioni al maestro Vincenzo Cristiano. La
soluzione al quesito arrivò per caso una domenica dopo la messa cantata delle
undici. Il maestro parlando di don Andrea, spiegò "urbi et orbi" che il
"comandiamo" si riferiva alla sua posizione nella Cassazione e non al
confidenziale "come va"?
Intanto,
lui il maestro, ritornava dal tabacchino di don Giovanni, mi salutava con la
mano destra e col suo sorriso da gran signore qual era, se ne tornava a casa.
Naturalmente portava un cappello nero e se incontrava un prete, forse Don
Antonio, che a quei tempi portava la tonaca nera, le scarpe nere e il cappello
nero tondo in testa, lui il maestro si toglieva il cappello, oppure si portava la
mano alla falda e faceva un cenno di
saluto. (Questo l'ho visto fare ad un musicista nel film " I cancelli del
cielo" di Michael Cimino. Credo che quel cow boy lo avesse copiato dal mio
maestrino o che lui stesso fosse stato in America ed avesse imparato quel
gesto). Il maestro poi passava davanti alla chiesa e lentamente saliva per via Oliva, arrivava ad
una macelleria e forse comprava un quarto di agnello, da Zi Chelucc (che da
giovane era stato capitano). Poi attaccava l'ultima salita, quella più ripida,
passava davanti alla bottega di mast Maurizio il falegname e rientrava nel
portone di casa sua.
Quando
dalla
porta della bottega di papà lo vedevo sparire all'angolo verso la
chiesa
io pensavo:" Il maestro Cristiano non è di Tursi, deve essere di un
altro
paese, magari di Taranto, dove c'è il mare. Io il mare non l'avevo mai
visto. Ma molti paesani
dicevano che a Taranto c'era il Mar Piccolo e il Mar Grande. Cosi
prendevo la
bacinella dell'acqua e la mettevo a terra. Poi prendevo la conca di
alluminio
che serviva per farci il bagno e lavarci, la riempivo di acqua e la
mettevo
vicino alla bacinella. La sera quando arrivava mio padre dicevo: "Ecco,
questo
è il mare piccolo e questo è il mare grande". Mio padre accennava ad un
sorriso, mentre mia madre si arrabbiava che avevo impuacchiata
(sporcata) la casa dicendo: "Questa è una trovata del maestro
Cristiano".
Ed io pensando a lui,
immaginavo che fosse stato a Taranto magari a studiare. Avrebbe sicuramente
passeggiato tante volte sul ponte girevole (altra meraviglia che non conoscevo
e di cui me ne parlava un allievo che imparava il mestiere di falegname da mio
padre, lo chiamavano Bacicalupo di soprannome, che poi a Taranto ci andò
davvero). Il maestro Cristiano era sul ponte proprio quando passava la nave. Lui si sarebbe calato con
una fune, avrebbe poggiato i piedi sul ponte della nave e mentre nessuno faceva
caso a lui, si sarebbe nascosto sottocoperta. Magari la nave andava negli Stati
Uniti d'America ed era la stessa nave che si vede nel film "La leggenda
del pianista sull'oceano" di
Giuseppe Tornatore. Non avevo minimamente pensato che quando le navi passano da
Taranto, il ponte girevole ...girasse. Questo l' ho scoperto molti anni dopo, da
grande. Camminavo a piedi con una valigia in mano (non era una valigia di
cartone). Dovevo attraversare il ponte "girevole", per andare alla
stazione a prendere il treno. Ad un certo punto, il ponte scomparve nella
nebbia. Preoccupato per il treno che avrei potuto perdere, chiesi ad un
passante:
-
Mi scusi, devo andare alla stazione.
-
E vai, vai... attraversa il ponte e ...
-
Ma il ponte non c'è.
-
Ma come non lo vedi che sta passando la nave.
In
quel momento forse per la nebbia che stava diradandosi o per le prime luci
dell' alba, vidi la nave, sentii il rumore dei motori, proprio come nel film
del pianista e capii cosa era veramente un ponte girevole. Allora pensai al
maestro di papà. Non poteva essere stato in America. In America c'era stato
invece lo zio di mio padre. Evidentemente il fumo del focolare domestico, mi
aveva annebbiato la vista o morivo dal sonno mentre mio padre stava raccontando
l'episodio di quando il maestro Cristiano si metteva in cattedra e..... per vedere se gli alunni facessero il copiato
alla lavagna o stavano a incantare le mosche .... faceva finta di leggere un
libro del Manzoni.
Poi abbassava il libro e con i suoi due grandi occhi che
sembravano fari nella notte (cosi diceva mio padre) pescava l'ignaro scolaro
che non lavorava e gli diceva a mo' di rimprovero: " Rustico caproscenico
sempre villano fugge". Io naturalmente non capivo il significato di quella
frase. L' ho capita molti anni dopo. Nel
1978 ero ad Assisi ad un convegno della Pro Civitate Cristiana. C'era lo
scrittore Arturo Paoli, piccolo fratello di Charles de Foucauld che era
ritornato dal Venezuela, un cardinale austriaco ed un giovane professore di
filosofia di 27 anni che aveva la barba (Massimo Cacciari). Girovagando per le
strade di Assisi, incontrai un signore che se ne stava seduto su di un muretto
e sfogliava un libro. Gli chiesi:
-
Chi sei?
-
Sono Gianni Rodari.
-
Sei della TV ?
-
No. Scrivo favole per bambini.
Poi
si alzò e se ne andò. Nel '82,
in autobus a Roma ero con alcuni ragazzi che avevo
accompagnato alle finali nazionali dei Giochi della Gioventù. La radio raccontava
quella mattina una favola di Gianni Rodari: " La storia dell'omino di
niente che mangiava solo i buchi del formaggio, perché non sapevano di niente,
ecc". Lì nel rumore del traffico della
Città Eterna, compresi il significato della frase del maestro Cristiano. "
Rustico caproscenico, sempre villano fugge" . Significherebbe che gli
spiriti eletti e di grande cultura ogni tanto sfiorano le persone un pochino
ignoranti, cercando disperatamente di illuminarle, ma se i villani non se ne
accorgono, essi si allontanano.
Ed io che ero insegnante di matematica alle
scuole medie, allenatore di basket, io che sapevo tutto sulla Primavera di
Praga, da Jan Palak ad Alexander Dubcek, io che avevo letto il libro di
Alexander Solgenitsn (Una giornata di Ivan Denissovic), io che negli anni
Sessanta passati all'università di Napoli avevo visto films come Easy Rider,
Hair, 2001 Odissea nello Spazio, io che ascoltavo da tempo i Pink Floyd, i Deep
Purlpe, Simon and Garfunkel e i Nomadi, io che leggevo settimanali come Epoca,
che seguivo le notizie alla Tv, che avevo vissuto il mio '68 all'Università di
Napoli dove avevo sentito parlare delle tre M (Mao, Marx e Marcuse) non sapevo
nulla di Gianni Rodari scrittore per bambini e giornalista dell'Unità. A
Taranto la mia nipotina frequentava la scuola Elementare che era dedicata
proprio a lui Gianni Rodari. Per penitenza ho comprato e letto almeno cinque
dei suoi libri di favole. Ma torniamo al tempo di quando avevo dieci anni. Sono
sulla via Roma, il maestro Cristiano è passato come una stella di fuoco nel
cielo nero (da un film western degli
anni '60, con Elvis Presly).
Mio padre
mi ha chiamato e mi ha detto: "Hai acceso il fuoco del camino che serve per
scaldare la colla?". Il sole calava ad ovest della collina di San Rocco.
Gli asini ritornavano in fila dalla
campagna ed i contadini si fumavano l'ultima sigaretta della giornata. Molti
anni dopo, ho letto alcune poesie scritte dal maestro Vincenzo Cristiano, così
ho scoperto che era anche poeta. Una poesia mi ha commosso più delle altre
tutte. Aveva per titolo: "Rabatana". Era scritta in italiano. Forse il poeta
tursitano Albino Pierro, nobel mancato negli anni Ottanta, si è ispirato
proprio a quella poesia, nello scrivere la sua in dialetto tursitano: "A
Ravatene".
Inoltre
un mattino di
autunno, il mio amico e compagno d'infanzia Maurizio (era stato lui ad
accompagnarmi nel mio primo giorno di scuola al Municipio vicino alla
chiesa di
San Filippo, dove c'erano le scuole Elementari) mi aveva ricordato che
anche
suo padre "mast Ciccio" (lo chiamavano così perché era un fabbro
ferraio) era
stato alunno del maestro Cristiano. Ed io gli chiesi: "Perciò tuo padre
ha
ereditato il vizio di leggere?". Dovete sapere, che il papà del mio
amico
Maurizio, quando smetteva di lavorare, si sedeva davanti alla porta
della sua
bottega in via Roma, poco distante dalla bottega di falegname di mio
padre e
leggeva i giornali. Il sorriso di quel vecchietto e la sua mano che mi
accarezzava la testa, mi accompagnerà per sempre, assieme ai ricordi
del tempo che fu. Sulla sua tomba che si
trova al cimitero vecchio del mio paese, c'è scritto il seguente
epitaffio:
"Uomo, quel che io fui tu sei, quel che io sono tu lo sarai".
Salvatore Martire
* Testo non proprio inedito, ma rielaborato dall'autore, che ringraziamo.
|