Nella lunga storia di Tursi e della sua Chiesa, la questione dei sinodi diocesani costituisce un argomento relativamente poco indagato e di indubbio fascino storico. I sinodi svolti dai vescovi della diocesi di Anglona-Tursi tra la fine del Concilio di Trento (1563) e la seconda metà del XVIII secolo rappresentano poi un piccolo enigma storico: non sappiamo infatti con esattezza quanti ne furono tenuti. Riferimenti diversi suggeriscono che ve ne furono almeno otto o nove, ma soltanto di due, quelli del 1656 e del 1728, sono noti gli atti pubblicati, mentre gli altri o sono andate perduti per sempre oppure giacciono ancora in qualche fondo o archivio in attesa di essere portate alla luce.* Il sinodo che ci interessa si svolse con tutta probabilità in Cattedrale alla fine del mese di aprile del 1656 e fu indetto da un presule molto attivo, Francesco Antonio DE LUCA, Vescovo dal 1654 al 1666. A lui si deve anche la costruzione del primo palazzo vescovile (era vicino piazza Plebiscito) e la fondazione della Congregazione di San Filippo Neri, patrono della città. Trascorsi i dodici anni, gli fu assegnata l’ arcidiocesi di Nazareth “in partibus infidelium”, da lui gestita nominalmente dimorando a Molfetta, sua città natale, fino alla morte. Le Costituzioni sinodali del 1656 si presentano come un libricino di 99 pagine interamente redatto in latino. Il testo, suddiviso in 37 capitoli dedicati ai più diversi aspetti della vita religiosa e sociale del tempo, fu stampato a Venezia nel 1657. Da un punto di vista dottrinale e normativo sono frequenti i richiami alle disposizioni del Concilio di Trento e alla bolla “In coena Domini”, emanata nel 1568 da papa PIO V (frate Michele GHISLIERI, uno dei più intransigenti difensori della fede cattolica di fronte alla minaccia protestante). Non risultano estranei allo scritto riferimenti consapevoli, ma mai del tutto espliciti, al tipo di devozione praticata e divulgata nel secolo precedente da san Carlo BORROMEO. Nell’analizzare il documento, abbiamo deciso di estrapolare solo alcuni dei temi di un certa rilevanza generale, traducendoli e commentandoli brevemente.
Il primo capitolo si prefigge lo scopo di individuare gli uomini che avessero abbandonato l’ortodossia cattolica (De expurganda dioecesi ab hominibus quovis modo à fide aberrantibus, p. 1). Dopo un breve preambolo si passa alle vie di fatto. Il Vescovo dava infatti mandato “… sotto pena di sospensione dai Divini Uffici ad ogni singolo arciprete, vicario foraneo, parroco o curato e a chiunque sia deputato alla cura delle anime, affinché indaghino con ogni cura e diligenza fino ai confini delle proprie parrocchie e individuino alcun eretico o qualunque sospettato di deviazioni dalla fede. E se per caso (Dio non voglia) individuassero uomini malvagi , siano tenuti ad informare noi o il nostro Vicario Generale entro il termine di tre giorni dalla ricezione della notizia” (pp. 1- 2). Chi contravveniva volontariamente a tale obbligo di denuncia, laico od ecclesiastico, veniva fulminato dalla scomunica “latae sententiae”, in grado cioè di colpire il reo al momento stesso della sua mancanza (p. 2). Ma chi erano questi “ uomini malvagi”? Oltre agli eretici “tradizionali”, luterani o calvinisti, piuttosto rari se non inesistenti alle nostre latitudini, le attenzioni del sinodo diocesano si appuntavano soprattutto sull’altro grande filone di devianza religiosa molto presente in tutto il Mezzogiorno d’Italia: la magia e la superstizione, con i propri adepti. Affinché non vi siano dubbi sull’identità di costoro, il documento ne traccia un ritratto preciso: “Costruttori di filtri d’amore o di immagini di cera che tormentano le persone o inducono all’amore l’animo di qualcuno; streghe, lamie o donne aventi nomi malvagi, alle quali molte si rivolgono per malefici e superstizioni o per curarsi dai mali; coloro che offrono incensi o fumigazioni ai demoni; coloro che celebrano su oggetti profani utilizzati per fare sortilegi, adibiti per compiere preghiere empie e parole superstiziose; coloro che proferiscono parole superstiziose atte a ritrovare oggetti rubati o a conoscere segreti.” (pp. 2-3). Tutte le persone incorrenti in tali gravi peccati costituivano casi riservati per i quali era prevista la scomunica immediata (p. 61). A proposito di superstizioni e magia, un passaggio del capitolo dedicato al corretto uso dei Sacramenti prescrive che: “Non si adoperi impropriamente la materia dei Sacramenti sotto qualunque pretesto, anche di pietà o di devozione o per curarsi dalle malattie, e specialmente per usi superstiziosi, sotto pena di scomunica ipso facto“ (De Sacramentis in genere, p. 51 ).
Il secondo capitolo è dedicato alle bestemmie (De blasphemiis, p. 4). Fenomeno di lunga durata quanto pochi altri, la bestemmia era quasi onnipresente nella società italiana del Cinque-Seicento. Stando alle testimonianze dell’epoca, si bestemmiava ovunque: per strada, nelle case e sui luoghi di lavoro (PROSPERI, p. 351). L’osteria e la locanda rimanevano però i luoghi nei quali le performances blasfeme raggiungevano vette di insuperabile virtuosismo negativo. Le autorità religiose del tempo, ma anche quelle laiche, e queste ultime con ferocia spesso inaudita, cercarono sempre e invano di sradicare un tale fenomeno, facendo continui ricorsi allo strumento della scomunica o ai tribunali dell’Inquisizione, se presenti sul territorio. Il sinodo tursitano si inserisce in questa tradizione di contrasto: la bestemmia viene definita “atroce peccato”, “detestabile scelleratezza” e “laccio del Diavolo” dal quale molti fedeli della diocesi erano stretti . Le norme erano severissime: “Preghiamo dunque i parroci o i curati e i Vicari Foranei, di vigilare contro i bestemmiatori, soprattutto se le bestemmie siano ereticali, e contro questi indaghino con la massima diligenza, prendano informazioni e le trasmettano a noi” (p. 4).
Il capitolo dedicato alle sepolture e ai funerali (De sepulturis et Exequiis p. 11), si occupa, tra l’altro, del pianto funebre, una delle tradizioni più tipiche della cultura meridionale (Corrain , p. 170). Questo fenomeno, la cui origine è con molta probabilità da ricercarsi nella tradizione pagana, era evidentemente assai presente nel territorio della diocesi: “Per sopprimere gli abusi delle donne e per cancellare i clamori delle medesime che disturbano gli Uffici Divini, proibiamo alle congiunte fino al terzo grado di accompagnare i corpi dei morti in Chiesa piangendo, dicendo cose (assurde?) e compiendo atti indecenti. E affinché la proibizione predetta sia osservata, i parroci o i curati ordinino alle stesse, sotto pena di scomunica, di astenersi da tali usi; e dal momento che presumano di accompagnare il corteo funebre in maniera fastidiosa , la salma non sia portata oltre;… e se per caso (le donne) si recano in Chiesa per altra strada, le caccino senza indugi, ne siano proseguite altre celebrazioni di Uffici Divini...“(p. 13) . L’usanza femminile di urlare e di strapparsi le vesti e i capelli in occasione di un funerale richiamava troppo da vicino le prefiche dell’Antichità per essere accettata dal nuovo modello di devozione diffuso dal Concilio di Trento. Da un tale rifiuto radicale derivavano le numerose proibizioni ecclesiastiche attestate in diversi sinodi diocesani lucani del XVII secolo (Viscardi, Magia, p. 89). Il funerale poteva costituire per alcuni sacerdoti del tempo un vero e proprio affare : “ si accontentino i curati di percepire la solita elemosina. I poveri e le persone miserabili si seppelliscano gratuitamente secondo il rituale Romano, con la Croce e con i lumi accesi a spese delle Chiese”(p. 12). I parroci non potevano seppellire chiunque in terra consacrata: “ Si astengano gli arcipreti, i curati e i presbiteri dal seppellire coloro che siano morti in duello o in seguito ad esso, anche se abbiano manifestato segni di pentimento e abbiano assunto i Sacramenti, sotto pena del carcere da stabilire a nostro piacimento. I curati non osino seppellire per nessuna ragione gli interdetti, gli scomunicati, gli eretici, i protettori degli eretici, i bambini morti senza battesimo, i noti usurai, i suicidi e coloro che non abbiano assunto la Santissima Eucaristia Pasquale”(p. 12).
Altro capitolo è dedicato al battesimo (De Sacramento Baptismi, p. 52). Vero rito di iniziazione alla vita cristiana, questo Sacramento rivestiva importanza ancora maggiore in un’epoca di altissima mortalità infantile. Si prestava dunque ogni cura nel battezzare il bambino entro i primi tre giorni di vita (p. 52). Solo in caso di imminente pericolo di vita e di assenza del sacerdote il nascituro poteva anche essere battezzato dai laici nelle abitazioni private (pp. 52-53). E’ in un tale contesto che la figura della levatrice fa la sua comparsa: in caso di necessità “… e di pericolo di vita, le levatrici hanno l’abitudine di battezzare; per questa ragione, sotto pena di scomunica, diamo mandato ad ogni parroco e curato di indagare con cura se le suddette levatrici conoscano le formule che sono richieste per battezzare; e se dopo un accurato esame abbiano scoperto che non le conoscono, proibiscano senza dubbio (di battezzare) fino a quando non siano state istruite, sotto pena di nostra scomunica”(p. 53). Mestiere delicato quello della levatrice. Spesso considerata in grado di dare o togliere la vita a proprio piacimento, poteva anche essere accusata di praticare la stregoneria o di avere intenzionalmente procurato l’aborto se uno o più parti si concludevano con la morte dei nascituri. Ne conseguiva un’attenzione particolare da parte della Chiesa, con una serie di divieti e avvertimenti reiterati in diversi sinodi lucani del tempo (Viscardi, Magia, pp. 82-85). Altra severa prescrizione era rivolta alla tutela del bambino nel primo anno di vita: “ E i curati impongano ai genitori dei battezzati di non far dormire il bambino nel proprio letto per un anno intero; se abbiano ignorato tale regola e ne conseguisse il soffocamento del bambino incorrano nella scomunica ipso facto”(p. 54). La proibizione era stata senz’altro indotta dalla situazione di sovraffollamento presente nella maggior parte delle case dell’epoca dove, per mancanza di spazio, un’intera famiglia usava dormire in un unico letto. E’ chiaro che, in uno stato di tale promiscuità, i casi di soffocamento dei neonati dovevano essere piuttosto frequenti, nonostante le severe minacce ecclesiastiche. La prescrizione di far dormire i piccoli nella culla (o meglio nel “cunino”), era ad esempio largamente elusa o perché non c’era spazio sufficiente per piazzarla o perché le madri preferivano tenere il bambino al proprio fianco per poterlo allattare con più comodità durante la notte (Prosperi, pp. 319 -320). Anche il matrimonio (De Sacramento Matrimonis, p. 72), era regolato da una serie di norme precise. Una riguardava le spose nel giorno delle nozze: “ La sposa non sia accompagnata in Chiesa con gli strumenti musicali e soprattutto non vi sia suono di strumenti nelle Chiese, sotto pena di dieci ducati e con riserva di scomunica…” .
Sono due i capitoli dedicati ai beni e ai diritti della Chiesa (De Bonis Ecclesiae non alienandis, nec usurpandis e De Immunitate et Libertate Ecclesiastica , pp. 78 e 85). Si tratta delle uniche sezioni del sinodo dalle quali è possibile ricavare notizie storiche sulla situazione patrimoniale della sede vescovile tursitana e sulle minacce che incombevano su di essa. Il capitolo De Bonis Ecclesiae esordisce con una premessa di ordine generale: “I beni della Chiesa sono proprietà di Gesù Cristo e dei poveri che gli ecclesiastici gestiscono per procura; perciò proibiamo del tutto la loro alienazione, donazione, permuta o concessione in enfiteusi e affitto per un periodo superiore ai tre anni…”(p. 78), per poi calarsi nella realtà locale: “ … E allo stesso modo scomunichiamo coloro che abbiano spostato i limiti o i confini dei beni redditizi del feudo della nostra Chiesa Anglonense” (p. 79). Nel capitolo “De Immunitate” si affronta un altro problema piuttosto ricorrente: “ Scomunichiamo tutti i giudici, gli ufficiali e le potestà secolari e i vassalli del territorio anglonense che intentano cause tanto civili quanto criminali spettanti alla Chiesa di Anglona, e di conseguenza a noi e al nostro foro episcopale secondo la concessione di Federico II e dei sovrani successivi, e che abbiano la presunzione di procedere in dette cause presso il foro secolare per sottrarre, occupare ed usurpare” . Che cosa succedeva ? Sappiamo che la Mensa vescovile deteneva da secoli la piena proprietà del ricco feudo ecclesiastico di Anglona, costituito da terre fertili e per ciò stesso molto ambito dai proprietari terrieri vicini. Costoro, con lenta ma inesorabile tenacia, si impossessavano di appezzamenti di terreno appartenenti alla Chiesa, spostandone magari i confini. Quando gli agenti del vescovo rivendicavano la legittima proprietà sul terreno occupato, gli “usurpatori“ reagivano facendo ricorso ai tribunali laici che spesso davano loro ragione scavalcando, per questa ma anche per altre questioni, il tribunale ecclesiastico competente. Da qui derivava la scomunica indirizzata non solo a chi si rivolgeva ai tribunali secolari, ma anche agli stessi giudici che procedevano nelle cause. Prima di concludere, ci sembra doveroso porci una questione. Tutto questo complesso di divieti e raccomandazioni ebbe un’applicazione concreta ? Si riuscì cioè ad imporre alle popolazioni della diocesi uno stile di vita più conforme alle norme cristiane? La risposta è in larga parte negativa. Qualche esempio emergente dalla documentazione storica può essere di aiuto: il Sinodo del 1728 indetto da mons. Ettore QUARTI fu costretto ad occuparsi nuovamente di stregoneria e di pratiche magiche pubblicando un lungo editto nel quale i fedeli venivano invitati a denunciare coloro “…che abbiano fatto o facciano atti, dai quali si possa argomentare patto espresso o tacito con il demonio, esercitando incanti, magie o sortilegi“ e coloro “che per arte diabolica sapessero legare gli sposi, acciocché non possano consumare il matrimonio ovvero sciogliessero o sapessero sciogliere i legati…”(De Rosa, Vescovi, pp. 62-63). E che dire del feudo di Anglona, che continuò, nonostante le minacce di scomunica, ad essere attaccato ed usurpato dai Signori laici almeno fino alla fine del Settecento? Infine, senza scomodare i documenti storici, si potrebbe semplicemente far ricorso alla memoria delle persone più anziane, per far riemergere dalla nebbia del tempo alcune delle usanze così duramente condannate dal documento.
Gianluca Cappucci
* Elenchiamo gli altri sinodi inediti, con il nome del Vescovo che li indisse: uno nel 1599 da Ascanio GIACOBAZIO; tra il 1609 e il 1616 da Bernardo GIUSTINIANO; nel 1646 (GALLETTI?); nel 1670, e in un’altra data anteriore al 1702, da Matteo COSENTINO e uno, o forse due, tra il 1702 e il 1720, da Domenico Carlo SABBATINO (De Salvo, p. 1081; Viscardi, I sinodi, p. 259 e note 45 - 47; Stigliano, p. 81; lo stesso documento del 1656 accenna a sinodi precedenti nella Lettera di Indizione ). (G.C.)
BIBLIOGRAFIA - Fonte principale: Constitutiones Synodales Editae et promulgatae in Dioecesana Synodo Anglonensi Ab Illustriss. ac Reverendiss. Francisco Antonio De Luca, Episcopo Anglonen. et Tursien. Venetiis, MDCLVII. Apud Franciscum Valvasensem. Fonti secondarie: C. CORRAIN, Documenti etnografici e folkloristici nei sinodi diocesani italiani, Bologna, 1970; G. DE ROSA, Vescovi, popolo e magia nel sud, Napoli, 1983; N. DE SALVO, Tursi (Chiesa vescovile ), in “ Enciclopedia dell’Ecclesiastico “ , Tomo IV, Napoli, 1845, pp. 1079-1087; A. PROSPERI, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Torino, 1996; A. L. SANNINO, Vescovi e diocesi, in “ Storia della Basilicata”, vol. III, L’Epoca Moderna, Bari, 2000, pp. 203-221; G. STIGLIANO, L’applicazione del “ Tridentino” nella diocesi di Anglona e Tursi attraverso le costituzioni sinodali del 1656, in “ Rassegna storica lucana“ , n. 16 (1992), pp. 81-87; e La diocesi di Anglona e Tursi attraverso le “ Relationes ad Limina apostolorum”, Matera, 1989; G.M. VISCARDI, Aspetti e temi della religiosità popolare nel Mezzogiorno nell’età delle Riforme e del Tridentino, in “ Rassegna storica salernitana”, XIII (2), dicembre 1996, pp. 43-75; G. DE ROSA e A. CESTARO (a cura di), I sinodi, in “ Storia della Basilicata”, vol. III, L’Epoca Moderna, Bari, 2000, pp. 251-273; I sinodi nella storia del Mezzogiorno ( secoli XVI-XIX ), in “ Tra Europa e Indie di quaggiù. Chiesa, religiosità e cultura popolare nel Mezzogiorno: secoli XV – XIX, Roma, 2005, pp. 31-47; Magia, stregoneria e superstizioni nei sinodi lucani del seicento, in “ Tra Europa e Indie di Quaggiù” , pp. 49-96. (G.C.)
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