La nostalgia dei numeri 10 e un ricordo di Basquiat di A. LOSTAGLIO
La nostalgia dei numeri 10
Il
calcio raccontato da Osvaldo Soriano, quello epico di Gianni Brera fino alle
felici meditazioni di Gianni Mura: un rinverdire i fasti della partita, con le
sue geometrie, il suo sudore, la sua poesia. E i numeri 10 quali moderni Ettore
e Achille, col peso di una squadra sulle spalle, per una sfida sul campo per "buttarla
dentro". I mitici Numeri 10, l'Epos che proviene da Pelé e Sivori, dalla
"genialità di uno Schiaffino" (canta Paolo Conte in "Sudamerica") alla serietà
dei Mazzola (padre e figlio) a Rivera fino ad Antonioni e Baggio; la nobiltà
dentro e fuori campo di Scirea e Zoff (in altri ruoli).
Stralci di
memoria da figurine
Panini e di un tempo che sembra incommensurabile, anni luce rispetto
alle
performance di un altro n. 10, quello ignobilmente portato oggi da un
certo
Totti. Lo ricordiamo ai Mondiali del 2002 mentre sputa sul viso del suo
avversario in mondovisione; che sbeffeggia gli avversari col pollice
verso nel
doloroso derby, alimentando (qualora ce ne fosse bisogno) violenze
gratuite
dentro e fuori lo stadio. E che non perde occasione, partita dopo
partita, di
pestare e tirare calci ad avversari anche lontani dall'azione, reagendo
in
maniera più delirante che agonistica. Fatto ben più grave è che porta la
fascia
di capitano. Come è lontana da lui l'evocazione del Capitano di Walt
Witman.
Senza più etica, nessun rispetto per l'avversario.
Così
diventa, suo malgrado, esempio emulabile per i bambini, anche quando,
sfacciatamente, propone video-poker in spot pubblicitari, oppure offre -
in
altri spot in compagnia della moglie - l'immagine dello sciocco e
sprovveduto ben
accasato. Con la moglie che non disdegna di
mostrarsi pure nelle intimità su reti nazionali, fingendo di fare la
pupa, ben dileggiata da due ottimi conduttori. Il calciatore e la pupa
televisiva, background di un mondo contemporaneo giocato sulla
pornografia dei
sentimenti: una deriva sempre più violenta ormai. Senza retorica: questo
calcio
"metafora della vita". (A.L.)
Jean Michel Basquiat, avrebbe
compiuto cinquant'anni
Avrebbe
compiuto cinquant'anni quest'estate se una overdose non lo avesse
stroncato a
soli 27 anni. Il creolo Jean-Michel Basquiat, sconosciuto disegnatore di
graffiti sui muri di Brooklyn, divenne negli anni '80 il primo pittore
non
bianco che raggiunse il successo sul mercato internazionale. Sono tante e
di
spessore le mostre e gli eventi che commemorano l'artista, nei luoghi
più
d'avanguardia, da Basilea a Parigi agli Stati Uniti di Obama. E pur nel
nostro
piccolo, intendiamo onorare la sua arte, di un personaggio eclettico e
un po'
nevrotico che portammo alla conoscenza del pubblico in Basilicata, con
una delle
prime Mostre cinematografiche per palati raffinati, promosse dal
CineClub "De
Sica". Il film ci appassionò subito durante la Mostra di Venezia del
1996, e
pertanto decidemmo di portarlo in anteprima a Rionero. Invitammo anche
gli
studenti ad apprezzare quel piccolo capolavoro; paradossalmente una
buona parte
degli allievi dell'Istituto d'arte non ne comprese la forza artistica.
Un film biografico
ma esemplare per quel che riguarda la metafora sulla "vacuità delle
fortune
umane". E' l'opera prima diretta da Julian Schnabel, pittore anch'egli.
Un cast
eccellente fa da corollario alla parabola artistica ed umana di Samo,
come
firmava i suoi quadri Jean Michel. Con David Bowie nei panni e le
movenze di
Andy Warhol, con Benicio Del Toro e soprattutto Jeffrey Wright, che
conferisce
all'artista una commovente fedele riproduzione. Colonna sonora di John
Cale (con
rap, jazz, voci di Renata Tebaldi e Tom Waits, oltre ai Rolling Stones)
il film
è un efficace ritratto di un artista predestinato all'autodistruzione,
dolorosamente segnato dall'incomprensione più che dal successo. A
scoprirlo fu
l'italiana Annina Nosei, la gallerista che vedeva nei suoi quadri "una
violenta
e diroccata New York, ma anche la sua poesia".
Il fortuito
incontro con Andy Warhol lo proietterà
repentinamente nell'eccentrico mondo delle gallerie d'arte. Ma
quell'ambiente, permeato
di opportunismo, non sembra adatto per Jean-Michel. E nonostante l'amore
di
Gina, la sua ragazza, cade preda di uno stato depressivo che si
aggraverà con
la scomparsa di Warhol.
Certo la
sua esistenza non sarà un esempio edificante, ma era
duro essere gli unici neri sull'ambita scena dell'epoca. Era proibito
loro
entrare in certi locali, fin quando gli amici non gridavano: Sono
persone
famose! Riletto oggi, Basquiat, con la sua ostinazione nel voler essere
accettato e compreso, avrà di certo contribuito a "disegnare un'America
capace
di eleggere un nero alla Casa Bianca".
Armando
Lostaglio,
CineClub De Sica - Cinit
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