L'angolo critico di Armando Lostaglio
La caduta degli dei di ARMANDO LOSTAGLIO (nella foto con Umberto Galimberti)
"La
caduta degli dei" è il titolo del monumentale film di Luchino Visconti (datato 1969, quasi tre ore) che
insistentemente aleggia e sconvolge, dopo le tribolanti notizie di scandali e
orge, di degradanti ebbrezze di potere, di abusi (sessuali e non solo): tutto
un clima che evoca il finale del capolavoro viscontiano sull'ascesa del potere
nazista (nel 1933) a causa del decadimento dei valori di una aristocrazia
oltraggiata dal suo stesso invasivo potere e supremazia.
Le orge finali
anticipano il crollo contemporaneo di un sistema di valori. Quel film (se ne
consiglia la visione) è un affresco della Germania all'avvento del nazismo, in cui la tragedia di
una famiglia simboleggia la dissoluzione della società. La "caduta"
rappresenta lo sfacelo di un sistema che non distingue più il bene dal male.
Emergono il decadimento dei valori e la quasi indifferenza collettiva, segnali
di una confusione più vasta in atto. Una lettura più attuale la offre (sempre
al cinema) il compianto Claude Chabrol con il suo "La commedia del potere" (che
in francese si intitola "L'ebbrezza del potere") incentrato su uno scandalo di
tangentopoli francese: il film è del 2006 e fenomenale interprete è la musa del
regista, Isabelle Huppert. Ha il volto
diafano, tempestato di lentiggini, lo sguardo tagliente come sa esserlo solo il
suo, mentre le labbra sottili sono esaltate dal rossetto, ma di quelli che
passano in fretta.
E' questa l'effige del pubblico ministero parigino, tormento
dei dirigenti corrotti e politici collusi. Ancora una caduta di personaggi così
in alto, ancora un crollo di macroeconomie a scapito del popolo che essi
ostentano di rappresentare. Eppure Platone ci ricorda che "quando gli dei abbandonarono
il timone del mondo, gli uomini dovettero provvedere con la politica, a darsi
regole da sé". Appare evidente che le regole fanno parte di ben altra etica,
troppo spesso non sostengono gli apparati delegati al bene collettivo.
Altrimenti il crollo della Domus dei Gladiatori di Pompei (patrimonio che
l'umanità invidia a questo paese) non sarebbe crollata. Con essa sprofonda
l'idea stessa di bene comune, di patrimonio ereditato che non si sa tutelare e
tramandare. La Domus di Pompei interpreta, suo malgrado, la caduta degli dei.
I danni da alluvione e i fondi per la
cultura di
Armando Lostaglio
Hanno
recentemente subito ingentissimi danni da alluvione sia il Veneto che la vicina
Piana del Sele: centinaia di migliaia di persone alle prese con devastazioni
ambientali e perdita o ridimensionamento delle proprie attività. Su tutto
questo piove (sul bagnato) anche le recente esternazione di Luca Zaia,
governatore della regione Veneto (è stato pure ministro), nell'auspicare
l'aumento dei fondi per la sua regione così gravemente colpita. Ma la questione
non sarebbe anomala se quel signore non avesse tirato in ballo i finanziamenti
previsti per "quei quattro sassi di Pompei", così da lui stesso definiti a
seguito del recente crollo della Domus dei Gladiatori.
Non ci sarebbero
commenti a simili attentati da parte di un esponente così autorevole, di una
regione a tutti cara. Ma la riflessione induce a considerare quanta scarsa
considerazione persone simili hanno del territorio, concetto onnicomprensivo
che evidentemente sfugge a chi deve farsi propaganda in ogni caso, tragedie
comprese. Intanto quel signore ignora che il sito archeologico di Pompei è il
secondo più visitato al mondo: introita in media 40 milioni di euro all'anno e
altrettanti (se non di più) col suo indotto. Una vera azienda che andrebbe
maggiormente tutelata per una maggiore e migliore fruizione. Lungi da alcun
inutile comparazione fra nord e sud - visto che si ha la fortuna di vivere nel
paese più ricco del mondo per beni culturali - quel signore dovrebbe tuttavia
approfondire concetti basilari circa il rispetto dell'ambiente. E pure il
Veneto ha subito di sicuro in questi decenni smembramenti e abusi come altre
regioni, non solo del sud. Massicce invasioni di cemento per una
industrializzazione forzata, asfalto e argini fluviali compromessi, aziende in
crescita produttiva che prima della recente crisi inneggiavano al miracolo
continuo, realizzato da gente sicuramente laboriosa.
Nondimeno al governatore
veneto andrebbe suggerita la lettura di qualche brano de "Il declino del
capitalismo" di Emanuele Severino (Rizzoli, 2007), laddove si sostiene che la salvaguardia del
territorio può essere garantita solo dalla tecnica; "...se il capitalismo vuole
salvare la fonte della sua ricchezza, non potrà più servire solo il profitto,
ma due padroni: il profitto e la tecnica che, sola, può rallentare l'usura
della terra, vero fondamento della ricchezza...Per cui arriverà il giorno in cui
il capitalismo dovrà rendersi conto che, distruggendo la terra, distrugge se
stesso..." Sarà un monito pur duro da digerire, da realizzarsi ancor più
utopistico, ma farebbe sempre bene una lezione di scienze politiche ogni tanto, specie a chi presume, con questa politica, di
avere le verità un tasca solo perché raccoglie consensi elettorali, mediante un
populismo di facciata. Lezione con una visita (conclusiva) proprio a Pompei,
alla scoperta di un patrimonio ereditato che (anche lui) dovrebbe imparare a
conoscere e a meritare.
NOI
CREDEVAMO - Il Risorgimento nel cinema,
da Filoteo Alberini a Mario Martone di Armando Lostaglio
La memoria del Risorgimento, 150 anni
dall'Unità d'Italia: il cinema ha avuto un rapporto non sempre conciliante
con tali eventi storici, ovvero con l'Evento per eccellenza. Nel 1905, epoca
del muto, Filoteo Alberini (classe 1865, pioniere del cinema) realizza il primo
lungometraggio italiano a soggetto, dal
titolo "La presa di Roma", composto da sette episodi. La prima proiezione del
lungometraggio sarà eseguita in occasione dell'anniversario di Roma
Capitale, in un luogo sacro del Risorgimento: Porta Pia. Era il 20 settembre
1905 e si stima che vi assistettero più di centomila persone. Si tratta di
un'opera - sostenne la critica - dai contenuti anticlericali, con influenze
persino massoniche. Di quel lungometraggio oggi restano circa 75 metri di pellicola, più
di 4 minuti di proiezione, restaurata e conservata dalla
Cineteca nazionale. Trascorsi alcuni decenni, si approda nel ventennio
fascista, quando ad Alessandro Blasetti (siamo nel 1932) viene commissionato il
film "1860".
Serve al regime per "costruire un certo consenso intorno all'idea di nazione".
Rimane uno dei primissimi film di ispirazione neorealista, dallo stile
asciutto e con una regia magistrale.
Trascorsa la guerra e la stagione
neorealista, il cinema dei grandi maestri scorgerà ancora nel Risorgimento
tematiche vitali per analizzare la nascita e il concetto di nazione. Lo farà
Luchino Visconti in due capolavori: "Senso" (1954, tratto da un racconto di
Camillo Boito) con una indimenticabile Alida Valli; e "Il Gattopardo" (1963,
dal romanzo di Tomasi di Lampedusa) entrambi sceneggiati con Suso Cecchi
D'Amico. Interpreti maestosi Burt Lancaster e Claudia Cardinale. Negli anni '70
Paolo e Vittorio Taviani gireranno il cult
"Allonsanfan" con Marcello Mastroianni (1974) imperniato sulle vicende
di Carlo Pisacane. Nel decennio successivo i due fratelli toscani porteranno
sullo schermo "Kaos", tratto da Pirandello, nel quale spicca la breve novella
del passaggio dalla Sicilia di Garibaldi (Carobbardo come lo chiama l'anziana
protagonista). Anche Luigi Magni, romanissimo autore di opere storiche sulla
capitale, negli anni '80 girerà due film gradevolissimi: "Arrivano i
bersaglieri" con Ugo Tognazzi e "O' Re" con Giannini e la Muti, sulla malinconica parabola
di Francesco II di Borbone,
spodestato da Garibaldi. E' dunque un rapporto audace e riuscito fra la nascita
della Nazione e il racconto romanzato sul grande schermo, curato da autorevoli
maestri. Oggi è toccato a Mario Martone, autore napoletano di raffinato senso
estetico, anche regista teatrale. Per i 150 anni redige a quattro mani con
Giancarlo De Cataldo una monumentale sceneggiatura per il film "Noi credevamo",
oltre tre ore e mezzo portato in concorso a Venezia nel settembre scorso (alla
67^ Mostra). A Martone tocca riprendere le fila
di un discorso più che mai ineluttabile, in una fase storica minacciata da
fanatismi scissionisti e da "scossoni demagogici". Il regista, suffragato da un
cast d'eccezione (Luigi Lo Cascio, Valeria Binasco, Toni Servillo (è Mazzini),
Luca Barbareschi), dipinge un affresco di vaga lezione viscontiana, con tinte
esili
e poetiche come nei Taviani. Attraversa oltre trent'anni di storia dal 1830 al
1863, mediante l'esperienza di tre giovani patrioti, travolti da un intreccio di
passioni, fra il politico ed il sentimentale. Il film si ispira all'omonimo
romanzo di Anna Banti, e sugli schermi italiani è appena uscito, ridotto di una
mezz'ora.
Rimane comunque gradevolissimo, scorrevole e perspicace nell'analisi dell'impeto
giovanile, delle inquietudini, spesso occultate dai personaggi che i libri di
storia hanno infarcito ed esaltato, da Cavour a Garibaldi a Mazzini e Crispi.
Il film recupera invece una figura femminile fondamentale: la nobile Cristina
di Belgioioso, interpretata nelle diverse età da Francesca Inaudi e da Anna
Bonaiuto. Una donna al centro delle trame, una rivalutazione di personalità
talvolta ritenute di secondo piano. Come la figura di Eleonora Pimentel Fonseca
(trattata nel film di Antonietta De Lellis, "Il resto di niente", 2004), che fu
fra le martiri della rivoluzione partenopea del 1799, laddove si individua il
germe del Risorgimento. E così il film di Martone concentra le passioni e la
fede dei giovani, contadini ed intellettuali, come un inno alla speranza.
Tuttavia si sfiorano appena quei movimenti ritenuti ineludibili come il
Brigantaggio e il dramma
di Napoli. Al regista, questa "carenza" l'abbiamo rilevata durante la
conferenza stampa a Venezia. Ma la sua opera - ci ha risposto - intende recuperare
gli eventi dal punto di vista delle passioni, prima ancora che delle realtà
cittadine e territoriali. Il racconto parte dal Cilento, attraversa l'Italia,
tocca Parigi e Londra, e si chiude in un cerchio ideale proprio al Sud dove, con un colpo di regia, la macchina da
presa riprende pilastri di edilizia abusiva sulla costa tirrenica odierna. Un
film riuscito: Martone ci mette tanto di suo, cerca di smussare angoli talvolta
insidiosi, mentre contribuisce nell'insieme a restituire una sagace dignità di
nazione.
Il déjà vu di una nazione e oltre di Armando
Lostaglio
L'analisi politica di queste settimane sa tanto di déjà vu. In francese
significa "già visto", ovvero quella sensazione di aver vissuto precedentemente
una situazione che si sta verificando. Il termine fu creato dallo psicologo
francese Émile Boirac nel secolo scorso col suo libro "Il futuro delle
scienze psichiche". Ed è un senso da manuale di psicologia sociale ad
assalirci quando compariamo le due recenti crisi politiche nazionali, quella del
gennaio 2008 e quella che si consuma in questi giorni.
Gennaio 2008: i rifiuti per le strade di Napoli e dintorni; le rivolte a
Pianura; i dubbi su Alitalia, la Finanziaria a rischio a dicembre: frena la
crescita ma tengono i conti; l'allora premier Prodi ha i numeri alla Camera;
qualcuno ipotizza lo scioglimento del solo Senato. E all'Ermitage di San
Pietroburgo, una mostra racconta i fasti delle "Ville dell'ozio" dell'antica
Stabia distrutta dalla eruzione del 79 dopo Cristo (che seppellì Pompei).
Novembre
2010: i rifiuti a Napoli, le rivolte a Terzigno; dubbi su Alitalia; Finanziaria
a rischio a dicembre: frena la crescita ma tengono i conti; il premier
Berlusconi ha i numeri al Senato, qualcuno ipotizza lo scioglimento della sola
Camera; nel contempo il crollo della Casa dei Gladiatori e della Casa del
Moralista a Pompei, recuperate dall'eruzione del 79 dopo Cristo.
Un già visto, dunque, a distanza di poco più di due anni: tanto dura il ciclo
medio di una legislatura nel nostro paese. La coincidenza è quasi da pelle
d'oca. Tuttavia, evitiamo di cadere nella logica della specularità fra destra e sinistra, del "tanto sono tutti uguali".
Ci sovviene un verso della canzone di De Gregori "La storia", e insieme pure il
dubbio che citazioni simili cadano nel vuoto in quanto ignote o ignorate da
quei signori che ci guardano da così in alto.
Le scienze sociali fanno riferimento alla psicologia, all'antropologia,
alle influenze della comunicazione, ma non sempre alla classe dirigente che
determina - ben oltre gli orientamenti della politica - le scelte di
istituzioni strategiche nella crescita collettiva. Esempio ne viene dalla
scarsa distribuzione di un film
monumentale, realizzato nell'anno delle celebrazioni dell'Unità d'Italia, "Noi
credevamo". Ebbene, la distribuzione (la 01) ha messo in circolazione soltanto
30 copie, cioè niente: una spesa anche pubblica (con RaiCinema e RaiFiction) per realizzare la straordinaria opera
diretta da Mario Martone, e di contro un irrilevante numero di sale nelle quali
proiettare e proporlo al grande pubblico, nonostante
gli echi positivi dell'ultima Mostra di Venezia, dove è stato presentato in
concorso. E' anche questo un déjà vu amarissimo nella sua manifestazione, che
privilegia l'economia alla fruizione pubblica di un prodotto culturale,
peraltro in una occasione così particolare.
Restando al mondo del cinema, anche nella nostra regione si potrebbe consumare
un déjà vu, nonostante sia una novità di rilievo: parliamo della Film
Commission che si sta istituendo in regione. Si pensa
(ma auspichiamo che non sia così) di realizzare una struttura che abbia a capo
una figura con un lavoro medio di pochi giorni di lavoro al mese (sette, otto).
Fanno invece sapere da Torino (dove opera una delle
più attive in Italia) che il lavoro di una Film Commission, specie all'inizio,
deve essere quotidiano e costante, senza orari.
Quel tragico
23 novembre, a Torino di A. LOSTAGLIO
Il
primo impiego di due ventiquattrenni, sempre insieme, io e Luciana: la città è
Torino, il calendario porta 23 novembre 1980, è domenica. La libertà di poter
utilizzare il tempo libero col proprio stipendio è da alcuni mesi una gioia
incommensurabile. La domenica, quella domenica, si arricchisce della messa
(nella parrocchia di Don Ermis); il pomeriggio la partita allo stadio Comunale,
quello dei miti infantili Sivori e De Paoli, fino a Bettega, Rossi, Tardelli e
Scirea. Il pomeriggio si conclude con un film: "Pane e cioccolata" di Franco
Brusati, (una storia di emigrazione) con Nino Manfredi, in una saletta da quelle
parti. Alle 19 e 15, all'uscita dal cinema, la prima cabina telefonica per
salutare (come di consueto) i genitori lontani: a Rionero e in Irpinia (la mia
ragazza). "Tutto a posto" è l'ordinaria parola di saluto. Tutto a posto per
nulla: pochi minuti dopo, l'inferno
delle 19 e 34. Quel vasto lembo di sud è
sconvolto dall'evento sismico fra i più tragici del secolo, proprio fra la Lucania e l'Irpinia, le
nostre terre. Lingue di fiamme dalla sommità del Vulture (giurano gli amici) si
sono sprigionate in un cielo tinto di rosso.
La
mattina seguente, il mio abituale giornale radio delle 7 parla di un "tragico
evento sismico" con epicentro a Sant'Angelo dei Lombardi. Sconvolta anche
Balvano, dove la chiesa ha seppellito tanti bambini. Notizie frammentarie rese
ancor più gravi dalle testimonianze in diretta radiofonica di donne in lacrime.
Balvano, il paesino che pochi anni prima avevo visitato per lavoro. Stento a
crederci. Per la prima volta tocco con mano la tragedia immane di un luogo a me
vicino. Intanto, il telefono di casa (a Rionero) non da segni di vita. Si pensa
subito di partire, ma passeranno due giorni prima di prendere quel treno
affollato. Intanto arrivano notizie rassicuranti: "stanno tutti bene" si fa per
dire, solo tanta paura.
Giunti
a Foggia, la fredda mattina del 26, ci si incontra con tanti altri
"meridionali" del nord diretti verso Potenza e in Irpinia, con la linea
Rocchetta-Avellino. Una signora non ha nessuna notizia di genitori e fratelli.
E' di Cairano Irpino, lo stesso paese del mio parrucchiere torinese. Momenti di
angoscia, e finalmente la stazione di Rionero: all'arrivo mie due sorelle
infreddolite e pallide, e un cugino che
mi stringe in un lungo abbraccio. E'in lacrime. Il piazzale della stazione è a
soqquadro, le case diroccate, una scena grigia come non mai. Devo portare via
gli anziani genitori, li porterò a Torino, chissà che si abituino e possano
restarci a lungo. No, solo 101 giorni (la conta è di mio padre), bisogna
ritornare e rimettere insieme quelle quattro pietre. Con esse, una famiglia da
rinsaldare.
Che lacrime... di A.L.
Lo
abbiamo visto piangere alla vista della chiesa dell'Aquila, ferita dal
terremoto. E' la chiesa nella quale si
celebrarono le sue nozze. Ha gli occhi lucidi, mentre il maggiordomo di turno
lo consola: la domenica pomeriggio della tv delle lacrime su Avetrana prima e
su quelle di Vespa poi, che presenta pure il suo ennesimo libro dell'anno. Le
sue lacrime sembrano finte tanto sia irreale il suo volto di cera, piuttosto
scuro, di chi sa di essere un arrivato e sa pure commuoversi, e sa commuovere,
come da copione (Blob lo smonta con garbo).
Ma nessuno gli suggerisce, (atteso
che gli stia davvero a cuore la sua città così duramente colpita, così offesa
anche da promesse non mantenute) che con i lauti guadagni che da decenni
percepisce (vendite di libri escluse) potrebbe contribuire in maniera
consistente a ricostruire quella parte della sua (e nostra) storia, quel bene
storico patrimonio di tutti, e suo in particolare. Nessuno glielo suggerisce,
anche perché sarebbe ritenuto banale.
Invece, con la metà del suo compenso di un anno di tv (un milione e
trecentomila percepisce in media) contribuirebbe a risollevare di molto la sua
chiesa. Pertanto, commozione non pervenuta, lacrime non accettate, le invii al suo
pubblico di fedelissimi, ai maggiordomi che ostentano il suo affetto per
timore, visto il suo potere così consolidato in una struttura pubblica, nella quale rimane il caposaldo non
scalfito mai da alcuna crisi, né interna ne di governo. Lui è sempre lì,
nessuno è come lui, longevo e potente. Quelle lacrime sono parte del gioco. Al
prossimo spot ma, per favore, un po' di ritegno.
Quel
23 novembre era domenica
Polvere
come nebbia
Fumo
come dolore
Paura
confusa di abbracci.
Quel
23 novembre era domenica.
E'
la storia di una terra: uomini
impauriti
e senza speranza.
Il
tremore emana detriti: terra e casa
come
briciole da raccogliere.
Pure
la rondine, che ritorna a primavera,
non
troverà il suo nido.
(Armando
Lostaglio - Basilicata)
Giovannino e la microstoria
di A.Lostaglio
Rionero in V. Sono di quelle storie (anche piccole) che riconciliano con la
vita, col senso di appartenere alla terra, allo spirito del luogo. L'accenna
uno dei suoi fratelli, dopo le esequie di Giovannino, che a soli sessantatré
anni è venuto a mancare nella lontana Germania. Lì era emigrato giovanissimo,
ci ha vissuto per quasi mezzo secolo: aveva un lavoro, messo su casa e
famiglia, con moglie lucana, naturalmente. Una casa però l'ha sempre voluta
nella sua città natale, ci veniva spesso per ritrovare i suoi fratelli e
sorelle. E per
respirare l'aria natia. Ma la sua casa era in Germania, cui deve una vita di
lavoro, tranquillità e riconoscenze. Un viso mite il suo, di lavoratore e
simpatico intrattenitore: così appariva sempre, anche le poche volte che lo avevo rivisto, in questi anni. Eppure la malattia non gli
ha dato tregua, strappandogli pure il sapore della pensione, meritatissima.
E poi un desiderio da commiato: "quando finiranno i miei giorni, vorrò tornare nel cimitero dove sono seppelliti i genitori ed un
fratello maggiore. Così almeno - diceva - resterò a lungo nella mia terra,
finalmente fra la mia gente che ho dovuto lasciare quando ero troppo giovane. La guarderò da lassù, dai piedi del monte Vulture". Desiderio
esaudito, perché no. Parole che commuovono, in un tempo che sembra correre così
veloce che nemmeno ci si conta più, e non si racconta nemmeno di quel tanto o poco che ci passa sotto gli occhi. Le parole
di Giovannino sono lapidarie, semplici quanto basta per riavvicinarci col
tempo, con le sue dilatazioni, con la microstoria di ciascuno che è poi quella
che ci rapporta al senso della vita.
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