L'angolo di
Armando Lostaglio, tra cinema, critica televisiva, impegno civile e molto altro
E senza dubbio
il nostro tempo... preferisce l'immagine alla cosa, la copia all'originale, la rappresentazione
alla realtà, l'apparenza all'essere... Ciò che per esso è sacro non è che
l'illusione, ma ciò che è
profano è la verità. O meglio, il sacro si ingrandisce ai suoi occhi nella
misura in cui al decrescere
della verità corrisponde il crescere dell'illusione, in modo tale che il colmo dell'illusione
è anche il colmo del sacro. (Feuerbach,
Prefazione alla seconda edizione de L'essenza del Cristianesimo).
Trentacinque anni fa uccidevano Pasolini
Sono trascorsi trentacinque anni da
quel 2 novembre del 1975, quando il poeta-regista Pier Paolo Pasolini veniva
massacrato su una spiaggia del litorale romano. Era un giorno grigio di
autunno, quelli della mia generazione (eravamo alla visita di leva quei giorni)
lo avevano conosciuto per i libri, per i suoi film (da Mamma Roma in poi, fino
al Decameron), ed avevano sempre stimato il suo coraggio. La sua omosessualità
era per noi, in quegli anni, un sortilegio che stentavamo a far scivolare per
forza di "modernità". Ma Pasolini apparteneva anche ai ricordi dì lucani, al
Vulture, perché quando girava il suo "Vangelo" a Barile, con i collaboratori
del set alloggiava all'albergo Roma di Rionero, e conosceva i contadini del
posto. Ci apparteneva un po' quel regista che giocava a pallone. E così, oggi,
apparirà persino fastidioso celebrare un anniversario, ma sarà bene farlo. Quei
balordi, hanno commesso il più tragico dei delitti: non solo un uomo, a un
poeta hanno strappato all'umanità, emblema di coraggio civile. Criminali
politici, ragazzi di vita, assassinio politico, vicenda giudiziaria mai chiusa;
e poi i film: di Marco Tullio Giordana, il documentario di Laura Betti con
Pasquale Plastino (regista rionerese), bellissimi documentari televisivi in
bianco e nero. Le scene dei funerali, con Bertolucci e Moravia e i suoi Davoli
e i Citti attorno alla bara; e la
Morante, la
Callas, la
Maraini... "Quando muore un poeta è come se morisse una stella
in cielo", sentenziava proprio Moravia durante le esequie. E una stella si è
spenta, ma non la sua luce. "Dissero che da lontano non sembravi nemmeno un
corpo, tanto eri massacrato. Sembravi un mucchio di immondizia e solo dopo che
t'ebbero guardato da vicino si accorsero che non eri immondizia, eri un uomo.
Mi maltratterai ancora se dico che non eri un uomo, eri una luce, e una luce
s'è spenta?" E' la chiusura di una lettera che scrisse Oriana Fallaci in quel
tragico autunno. La giornalista gli dedicò in quei giorni una appassionata
lettera, fatta di ricordi, degli incontri romani insieme al suo "poeta" Alekos
Panagulis, che di lì a poco sarebbe stato (pure lui) ucciso, nella sua Grecia non
avulsa del tutto dal regime dei Colonnelli. E' una lunga lettera scritta col
più profondo dei sentimenti, in un passaggio scrive: "Nessun prete mi ha mai parlato, come te, di Gesù Cristo e
di San Francesco. Una volta mi hai parlato anche di Sant'Agostino, del peccato
e della salvezza come li vedeva Sant'Agostino. È stato quando mi hai recitato a
memoria il paragrafo in cui Sant'Agostino racconta di sua madre che si ubriaca.
Ed ho compreso in quell'occasione che cercavi il peccato per cercar la
salvezza, certo che la salvezza può venire solo dal peccato, e tanto più
profondo è il peccato tanto più liberatrice è la salvezza."
Armando
Lostaglio - CineClub De Sics - Cinit
Le
parole vuote
"Perché lei mi racconta storie simili? - Così...
Un po'... per parlare. Ma perché bisogna sempre parlare? Io trovo che molto
spesso bisognerebbe star zitti, vivere in silenzio. Più si parla, più le parole
non vogliono dir niente." E' una
delle lapidarie affermazioni tratte dal film Questa è la
mia vita (Vivre sa vie) girato nel 1962 da Jean-Luc
Godard. Quanto mai pertinenti con il chiacchiericcio pressoché quotidiano che relega il pensiero
in un contenitore vuoto. "Nel linguaggio menzogna ed errore sono pressoché
inscindibili e indiscernibili", prosegue un altro segmento del film del maestro
francese.
Un assassinio che segue un altro, una
violenza che segue un'altra, e giù a contare e raccontare, vuoto dopo vuoto. Il
confine fra libertà di espressione (diritto di cronaca) e il chiacchiericcio
funesto è ormai sempre più labile, a causa della rincorsa all'audience, del
mercato dell'emozione senza sentimento. "Bisogna prestarsi agli altri e darsi
a se stessi" è la citazione di Montaigne in apertura di quel film. Una
lettura della realtà che si affranchi dal mormorio a pagamento, ciò sarebbe
auspicabile in un sistema che deve essere meno condizionato dalla
mercificazione di ogni effetto, di ogni commozione.
Sarebbe un sensibile contributo contro la maldicenza
nella quale si annega. Mentre si è sospesi in un limbo senza tempo, perché siamo
fuori dal tempo, nel vuoto, e soprattutto in attesa di un "Godot che non arriverà mai". A.L.
Le castagne
sono buone
Prendiamo
in prestito il titolo di un film di Pietro Germi, "Le castagne sono buone" (del
1970) per sostenere e confermare che in quest'autunno le castagne sono davvero
buone. Sono "prene" di frutto (come si dice in gergo di una donna in attesa)
quelle del Vulture (speciali per la varola di Melfi), come quelle di Accettura
e di Gallipoli Cognato, ancor più colme sono le castagne del Monaco nella
vicina Irpinia. Le castagne che ritornano a scandire la stagione nel sottobosco
umido, mentre declina verso l'inverno. Un altro freddo inverno attende le
strade e i tetti da imbiancare. Il camino acceso per riscaldarsi, come
dall'asettico termosifone coperto dei panni da asciugare. "Bisogna vivere senza
stancarsi, guardare avanti e nutrirsi delle riserve vive elaborate dall'oblio
in collaborazione con la memoria" è quanto ci sollecita dal profondo meditativo
Boris Pasternak, quello del Dottor Zivago e della neve eterna di Russia;
nutrirsi delle riserve vive, come le castagne appunto, mentre scoppiettano sul
fuoco. E' il prodigio dell'autunno, quel sapore che l'artista Patrizia Casiraro
(buddista di ritorno che scrive come dipinge) avvicina alle quiete delle
atmosfere cromatiche e dei profumi: "Giallo nelle foglie della vite / Marrone
bruciato nelle castagne / Profumo di verdure / il minestrone caldo tepore dal
forno./ E il sapore pieno di un bel rosso nel bicchiere. / Autunno che scalda e
ripara e accoglie / in un abbraccio psichedelico di sfumature. / Mi dice di
tolleranza e di passaggi..." A.L.
La morte in
diretta, dal cinema alla televisione
Il
cinema d'autore aveva già trattato, con garbo e lungimiranza, il tema (ovvero)
la tragedia consumatasi sotto gli occhi di milioni di telespettatori mercoledì
scorso: protagonista il programma serale "Chi l'ha visto?" di Federica
Sciarelli. In questi giorni si sovrapporranno le discussioni e i corsivi sulla tragedia della giovanissima Sarah, e
soprattutto sulla inopportunità di aver seguito con le telecamere fino in fondo
il volto di una madre impietrito dal dolore e dalla incredulità. Sarà pure
"odiosa la tv che non ha permesso ad una mamma straziata di cercare la
compostezza dei sentimenti, che non le ha dato il tempo di dominarsi"(come
scrive Francesco Merlo), sarà pur vero che alla Sciarelli è capitata
l'occasione della vita (professionalmente parlando), ma va preso atto che la
difficoltà di gestire emotivamente quell'accavallarsi di veline d'agenzia, di
presunte verità sotto l'egida dei verbi al condizionale, non sarà stata per
nulla agevole. (I Vespa o lo Sposini di turno avrebbero pagato milioni per un'
opportunità simile). Quantunque la
Sciarelli avesse chiesto più volte alla madre della povera
Sarah se era il caso di proseguire la diretta, di certo riteniamo che il
collegamento andava interrotto almeno venti minuti prima, consentendo alla
signora di uscire di scena, previa una maggiore accortezza da parte del legale
di famiglia che non ha difeso al meglio l'immagine della sua assistita. E
intanto un'altra storia italiana è passata al setaccio mediatico di una
informazione bramosa. Non un reality, certo, ma l'affermazione della realtà,
costi quel che costi. I tragici protagonisti assenti (la giovane Sarah e la
madre sgomenta) svolgono nel contesto quasi un ruolo sussidiario, ben lontano
dalla pietas che invece richiederebbe, nel silenzio più profondo.
L'affermazione di questi sentimenti potrebbe compiersi attraverso il sottrarsi,
lo scomparire e il ricomporsi dentro. Quasi come nella parabola che il regista
francese Bertrand Tavernier realizza col suo film "La mort en direct" (La morte in
diretta, del 1979), a metà tra la fantascienza e il melodramma. Roddy (un
magnifico Harvey Keitel) è l'operatore di una rete televisiva, il quale accetta
di farsi inserire una microcamera nel cervello, trasformandosi in una specie di
telecamera vivente. All'inizio è felice di fare di ogni visione un proprio
film: utilizza lo straordinario potere di riprendere gli ultimi giorni di
Katherine (Romy Schneider), malata terminale. Ma poi Roddy entrerà in crisi,
con un finale dai toni intensi fra i due protagonisti. Oltre a riflettere su
una certa dissolutezza tipica dei mass media e Tavernier l'ha girato oltre
trent'anni fa, il film"La morte in
diretta" ammonisce che il reale è diventato una "totalità indifferenziata, un
processo chiuso in cui soggetto e oggetto sono termini che non hanno più senso".
Forse questo ci suggerisce, in fondo, anche la visione di "Chi l'ha visto?":
occorrerà che tutti cogliessimo questa ulteriore lezione. A.L.
Il piacere di
condividere una riflessione su Montale che ha scritto a Lostaglio l'amico
catanese Pippo Magno (psicologo)
Portar fuori di sè ciò che si è vissuto intensamente è una necessità dell'uomo.
Descrivere gli aspetti peculiari e più significativi di un evento
personale, permette di convincersi che un'esperienza si è realmente vissuta.
Ripercorere emozioni, affetti e le manifestazioni del sentimento umano,
attraverso la partecipazione altrui rende ancor più " godibile " ciò
che si desidera ricordare ed attenzionare. Aprirsi alla relazione, alla
esteriorità per comunicare e descrivere il proprio pensiero porta l'uomo
a superare la condizione solitaria di sè. Uscir fuori dalla propria sfera di
intimità e condividerla emotivamente con altri, dà una misura più
profonda e completa di ciò che si sta vivendo. Il nostro vivere con il mondo è
un continuo rapporto con gli Altri. L'Altro che non necessariamente deve
correlarsi agli Alri, ma all'esteriorizzazione del proprio Sè, ci riporta
alla dimensione dell'esistere. Ma tutto di sè e di ciò che intendiamo esprimere
non può essere detto e riportato su carta. " Registrarsi " e
ricorrere alla descrizione può rendere più vivo il momento di vita che si
desidera evidenziare... E' una possibilità di riflessione che ognuno di noi può
crearsi per significare un punto di vista della propria percezione e
consapevolezza di sè. Descriversi come esigenza interiore per narrarsi agli
altri ed osservare come in una lente d'ingrandimento i propri punti di
debolezza e di forza. Descriversi quinidi, non perchè si ha l'ispirazione di un
" vezzo autobiografico " , ma per rivelare la propria identità,
quella più nascosta, quella più cercata e pensata e magari sofferta.
Descrivere-si per accorgersi del significato vero della vita e pensare di
vivere in una dimensione diversa dell'esistere.
Il bisogno di scrivere e descrivere fatti, pensieri, fantasie che ci
appartengono è così forte come sostiene Montale, quasi "
un'insopprimibile ragione di sopravvivenza " . L'inchiostro guida le
nostre riflessioni su carta, fissandone i significati e gli aspetti più
peculiari di ciò che si vuole concretizzare al di fuori della mente, ma non
potrà mai competere con il ricordo vivo ed autentico che si ha di esse quando
sono richiamate alla memoria. Ci sarà sempre " un'inevitabile perdita di
sè " quando si prova a convertire il proprio pensiero, cristallizzandolo
nella descrizione più rispondente alla realtà che si è vissuta.
Giuseppe Magno
Urge la
salvaguardia monumentale di Villa Granata a Rionero
Rionero
in Vulture. Con una nota inviata all'arch. Paola Raffaella David,
Soprintendente per i Beni Ambientali e Architettonici della Basilicata,
l'Organizzazione Lucana Ambientalista (OLA) e il CineClub Vittorio De Sica -
Cinit hanno chiesto (qualora non l'avesse già fatto) l'attuazione dell'iter per
la dichiarazione di interesse pubblico con
l'emanazione del vincolo monumentale di cui la legge 1 giugno 1939, n.
1089 per l'edificio e le aree circostanti l'edificio storico denominato "Villa
Granata" (XVIII- XIX secolo) , situati a
sud del centro abitato, lungo la direttrice per Atella.
La
richiesta è motivata dalla necessità e
dalla urgenza di salvaguardare un manufatto di indubbio valore storico ed
ambientale che attualmente versa in un grave stato di abbandono ed esposto,
assieme all'area circostante, oltre che all'incuria, anche a possibili
abbattimenti per far posto all'espansione urbanistica ed un uso improprio
dell'area. Di tale emergenza, è stato realizzato un video a cura di OLA e dello
stesso CineClub De Sica, che circola da qualche giorno sul sito di OLA e che dovrebbe circolare in circuiti
festivalieri sul tema.
Sarebbe
davvero una grave perdita consentire che ciò avvenga, privando così la
collettività di un elemento architettonico di pregio, testimonianza di un
passato agricolo e rurale del territorio del Vulture, con particolare
riferimento alla storica coltivazione della vite e del vitigno di pregio
dell'Aglianico del Vulture. Villa Granata, già possedimento dell'omonima
famiglia dedita alla coltivazione della vite sin dalla fine del 1700, divenne
nel primo ventennio del 900, sede di un Istituto agricolo dedicato a "Giustino
Fortunato" con la finalità di migliorare ed incrementare la coltivazione della
vite e la produzione vinicola locale.
L'edificio,
denominato Villa Granata, appartenne sin dalla fine del 1700 all'omonima
famiglia di Rionero in Vulture dedita all'agricoltura ed alla coltivazione
della vite. Il podere si distende su una vasta area, con l'annesso edificio a
pianta rettangolare con quattro torri angolari che si sviluppa su due livelli.
Attualmente mostra tutte le strutture del tetto, mentre completamente assenti
sono gli infissi e diversi elementi in pietra di porte e finestre. La Villa
appartenne, così come i terreni situati alla destra del fosso del "Rivo Nigro",
alla famiglia che diede i natali a Luigi Granata (Rionero, 11 novembre 1776 -
Napoli maggio 1841), studioso di scienze naturali, professore di Agronomia e
Scienza silvana nella Reale Scuola,
socio dell'Accademia Pontiana e della Real Società Agraria di Torino, nonché
autore di numerosi studi tra i quali "teorie elementari per gli agricoltori"
cui seguirono, editi nel 1830, un trattato in due volumi "sull'Economia per il
Regno di Napoli" ed un saggio "sui mezzi onde migliorare l'economia rustica del
Regno di Napoli" ed altri numerosi studi.
Nel
1922 Villa Granata ospitò l'Istituto "Giustino Fortunato", in cui vennero
istituiti corsi professionali per l'istruzione dei viticultori e dei contadini
diretti da eminenti professori e studiosi. Diede impulso all'istituzione della
scuola il senatore del Regno Giustino Fortunato. Egli incoraggiò l'Opera
Nazionale Combattenti, Ente sorto per aiutare i reduci della I guerra mondiale
e le loro famiglie. Fortunato intese così salvare i vigneti del Vulture,
attraverso un'azione di studio, di indagini sperimentali sulla diffusione della
fillossera, all'indomani del primo conflitto mondiale. Intorno all'Istituto
Giustino Fortunato si estendevano nove ettari di terreno, in cui furono
impiantate, a più riprese, viti americane e piante da frutto, che costituirono
magnifici barbatellai e vasti vivai di piante fruttifere. Si ha notizia che le
"barbatelle si rilevarono miracolose e sollecitarono l'immediato interesse
degli agricoltori, per cui l'Istituto fu costretto a produrre ogni anno oltre
centomila barbatelle di viti ed una decina di migliaia di piantoni da frutta.
L'Istituto G. Fortunato svolse, per alcuni decenni, una preziosa azione, utile
e concreta per l'agricoltura viticola e fruttifera della zona; si distinse
inoltre per le indagini pedologiche, per i suoi studi più disparati sulla
cultura delle viti, per le ricerche effettuate in Italia e all'estero, per i
continui sussidi informativi offerti ai viticultori e frutticultori della zona
del Vulture".
Due
cartoline datate rispettivamente 31 agosto 1926 e 18 marzo 1927 (vedi
riproduzioni 1 e 2) mostrano l'Istituto Giustino Fortunato all'epoca del suo
massimo splendore. Evidenziano (immagine n.1) il viale e la casina
dell'Istituto, contornate da vigneti con la dizione "Saluti da Rionero in
Vulture - Istituto Giustino Fortunato - Opera Nazionale Combattenti" e
l'estensione dei filari dei vigneti con la tipica formazione "a capannuccia"
con il vitigno locale innestato su ceppo americano (immagine n.2) con la
scritta a margine della cartolina "Rionero in Vulture (Basilicata) - Opera
Nazionale Istituto G. Fortunato - per il progresso della viticultura del
Vulture - vigneto su ceppo americano al 2° anno d'impianto". Il commento a
margine delle due cartoline riportate nel testo edito da Luigi Luccioni riporta
il commento "opera istituita da Giustino Fortunato, finalizzata alla lotta
contro la fillossera, un parassita della vite che compromette la validità dei
vigneti, attaccando prevalentemente le foglie e molto meno l'apparato radicale
delle viti americane, mentre l'inverso accade per le viti europee. Il Commento
dell'autore L. Luccioni evidenzia l'inesistenza di Villa Granata agli inizi
degli anni 80: un errore questo smentito dalle foto realizzate nel mese
Settembre 2010 (vedi foto).
Dal
repertorio fotografico e dalle sintetiche ma significative testimonianze emerge
l'importanza culturale e storica del monumento. Richiama la necessità e
l'urgenza di salvaguardare, in vista anche di auspicabile restauro e recupero
funzionale dell'edificio, oggi inserito in un contesto urbano degradato, un
manufatto storico di indubbio valore monumentale ed ambientale che attualmente
versa in grave stato di abbandono ed esposto, assieme all'area circostante,
oltre che all'incuria, anche a possibili abbattimenti con cambio di
destinazione d'uso dell'area per far posto ad insediamenti abitativi ed
espansione urbanistica. A.L.
"Timp'r' na
vòt" di Ernesto Grieco nello "Sposalizio culturale" di Castellanza (Mi)
Castellanza
(Va). Nell'ambito delle celebrazioni per i 150 dell'Unità d'Italia, viene
promosso nella Biblioteca della cittadina lombarda - venerdì 24 settembre - uno
"Sposalizio culturale" mediante la presentazione di due libri in vernacolo: "Vègn
chi, balén - poesie e testi della Provincia di Varese" a cura di Luciana
Ruffinelli, e "Timp'r' na vòt" di Ernesto Grieco, in lingua rionerese.
L'originale
manifestazione è stata curata dalla Regione Lombardia, dalla Regione Basilicata
e dal Comune di Castellanza, per iniziativa della stessa Luciana Ruffinelli,
consigliere regionale della Lombardia (aderente alla Lega Nord) e di Luigi
Scaglione, consigliere regionale lucano, che presenzierà la serata culturale.
Coordinato da Mimmo Cecere, docente di discipline pittoriche, il confronto sulle poesie dialettali
Nord-Sud.
L'autore
rionerese Grieco rappresenta, dunque, la nostra terra, con quest'opera "Timp'r'
na vòt" pubblicata qualche anno addietro, a cura del CineClub "Vittorio De
Sica" - Cinit, di cui Grieco è uno dei primi adepti. Il libro di Grieco rimane
fra le prime opere pubblicate in vernacolo, con a fronte traduzioni ed un breve
vocabolario arricchito dell'etimo dei termini dialettali. Nella prefazione
interventi dei fondatori del "De Sica", Donato Labella ed Armando Lostaglio.
E'
di certo una lodevole iniziativa quella promossa dalle due Regioni, che
consentono, fra l'altro, utilissimi momenti di aggregazioni anche per i tanti
lucani che da decenni risiedono in Lombardia per ragioni di lavoro.
Chiara Lostaglio
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