Tra il XVI-XVII secolo le sepolture avvenivano
ciascuna nell'appezzamento di terreno posseduto dalla famiglia. Ma i corpi
umani, evidentemente mal interrati, sovente venivano dissepolti da animali
randagi e/o carnivori, i quali lasciavano poi i miseri resti sparsi e le fosse
aperte alle intemperie, con gravi rischi per la tutela della salute. Dunque,
per questioni sanitarie si intervenne con ordinanze affinché i trapassati
fossero sepolti in fosse carnarie, nelle immediate adiacenze delle chiese,
almeno fino al XVIII sec. Nella Rabatana ciò avvenne nel "cimiterio". A San
Michele nei locali interrati dell'episcopio e della stessa chiesa, in un grande
stanzone per donne e bambini distrutto dal terremoto del 1856, murato sotto i
ruderi ancora esistenti. Tale grande locale, sotto la chiesa, si è potuto
osservare quando sono stati eseguiti i lavori di restauro. "Si notavano ancora
migliaia di ossa e teschi" raccontavano gli anziani, i quali dai loro genitori
e nonni avevano appreso che i defunti venivano portati tra le braccia per la
benedizione e poi scaraventati nella fossa. Alla gente che andava in chiesa a
pregare, poteva capitare di udire i "lamenti
dei morti", perché a quei tempi la sepoltura avveniva subito, e poco importava
se si trattava di svenimento o di morte apparente oppure di coma. Figurarsi lo
strazio delle madri e dei familiari.
Alcuni si scavavano loro stessi la fossa per la
sepoltura e quando non erano più in
condizioni di vivere si recavano in campagna e vi si affossavano. I più ricchi
si preparavano il loculo interrato con lastre di pietra e un lastrone grande
posato sopra, come coperchio, mantenuto da un pezzo di legno. Tali sofferenti che
avvertivano il trapasso "imminente", decidevano la propria fine portandosi la
lucerna, un fiasco e dei monili, quindi si ponevano dentro e, togliendo il
legno, il coperchio cadeva, così loro si spegnevano dentro lentamente.
Con la legge napoleonica, furono abolite le fosse
nei centri abitati, perché c'era il tanfo nauseante e il rischio costante di
malattie. In Tursi fu costruita la fossa carnaria a San Francesco, distante dal
paese. Per pochi ricchi venivano usate le bare di legno e murate, per molti
poveri c'era la bara comunale. I morti venivano trasportati a spalle da quattro
becchini così soprannominati: Filo di
Paglia, Giovanni lo sciaffarone, il Cieco e Naso Cacato, erano coloro che,
giunti a l convento di San Francesco, svuotavano la bara, scaraventando il
morto nella fossa, con i corpi l'uno sopra l'altro ammassati, bambini e donne
sotto, gli uomini erano nudi. Allora, nel convento, c'erano le suore di San
Vincenzo, le Margheritine, che educavano le nobili donzelle. Una di queste, Marietta FUCCI di Tursi, raccontava i
funerali dei bimbi, sovente accompagnati dal suono dei violini, ma (essendo
elevato il tasso di mortalità infantile) a quella melodia anche i topi s'erano
abituati e uscivano fuori regolarmente, quasi pregustando la festa per la notte
da dedicare a quelle carni teneri. Salvatore
VERDE ha dedotto,
da documenti della seconda metà dell'Ottocento, che il medico condotto
Giambattista AYR, alcune
notti si aggirava nei luoghi di sepoltura per udire se c'era gente ancora in
vita, che si "svegliava" dopo lo svenimento o la catalessi, forse per
eventualmente aiutarli o più probabilmente per denunciare il sotterramento di
persone ancora vive. Si può ipotizzare che alcuni potessero essere aiutati dal
coraggioso dottore, ma anche che altri vi morissero di paura. Quasi tutta la
medicina pre scientifica era impegnata sul fronte dell'igiene, perché la paura
del contagio e di epidemie era elevata, perciò anche allora il morto veniva
portato subito nella fossa.
Nel 1894, abolite le fosse carnarie, si costruisce
il nuovo cimitero. Per molti anni si usava ancora la bara comunale, interrata a
due metri di profondità, altri corpi erano solo avvolti in una coperta e
buttati giù, ricoperti di terra. Alcuni ricchi si fecero costruire le cappelle
cimiteriali, dove venivano murate le bare; la maggior parte del popolo continua
ad essere affossato, ma alcuni hanno la possibilità di farsi una bara (magari i
familiari scassavano "u cascione" per fare la cassa da morto) e gli altri
poveri venivano avvolti in un sacco e interrati: per non coprire il volto di
terra, sulla faccia gli mettevano degli stracci vecchi. Per i benestanti cera l'accompagnamento
del Capitolo, formato da cinque o sei preti; poi cera la
Domina,
con due o tre canonici, la mezza Domina, con uno o due sacerdoti, e il Gloria o
la gloriucchia, con uno solo; per i nudi e poveri "pezzenti" c'era solo la
benedizione in chiesa, con la bara comunale e i quattro becchini che la
trasportavano al cimitero e l'affossavano a spese del Comune.
Quando il funerale scendeva dalla Rabatana o da S.
Michele, il rimbombo delle scarpe di cuoio pesanti e chiodate si sentiva da
lontano, mentre la folla aumentava sempre di più nel centro storico con il
mormorio di litanie delle bizzoche. In piazza il corteo si fermava
necessariamente; la bara veniva posata sulle "cavallette" di ferro che qualcuno
provvedeva anzitempo a sistemare al centro, mentre "n'du strittue du Barone" avanzavano
file di bambini con corone in ferro, seguite dal sagrestano con la croce grande
davanti ai preti, tutti che precedevano la bara, seguita dalle donne di
famiglia e altre parenti, con le chiome sciolte, piangenti a singhiozzo mentre
decantavano le doti del defunto, fino a riuscire ad emettere un lamento dalla gola che faceva impietosire
tutta la gente. La moglie e le sorelle del defunto si raschiavano la faccia,
tanto protagoniste da insanguinarsi.
A volte la bara veniva seguita dalla musica, i pezzi
funebri erano davvero molto tristi. Portato a spalle, il feretro sostava vicino
a tutte le chiese e cappelle, e quando il
corteo funebre arrivava all'incrocio del Petto-San Lazzaro là avveniva il
distacco. Per il dolore e la tristezza esaltata, i congiunti davano testate alla
bara fino a procurarsi delle lesioni alla testa. Quando il feretro imboccava la
strettoia tra le due timpe del cimitero, la musica otteneva l'eco, così elevando il "lamento" dei clarini e lo
strillare dei tromboni, con altri suoni strozzati e mischiati alla disperazione
di donne e bambini e con i pianti soffocati di uomini. Era il massimo della
manifestazione del dolore lacerante e tutta la gente era emotivamente coinvolta
nel pianto, una scena quasi indescrivibile, oggi irrepetibile.
Quando morivano i genitori, i figli orfanelli di
cinque-sei anni, se femminucce andavano a fare le "servette" nei palazzi nobiliari;
addette a tutti gli umili servizi, non
senza subire le mortificazioni, appena giovinette subivano violenze dai figli
dei padroni o da loro coetanei, perché non erano riguardate e difese da
nessuno; le poverette erano costrette a ciò per una mangiata, un vestito
vecchio o un paio di scarpe, magari più grande
dei loro piedi. Altrettanto infelice era la vita dei maschietti; a sei anni andavano
con i pastori, imparavano a custodire il gregge e dormivano per terra sul
pagliericcio, d'inverno vicino il focolare per asciugarsi; avevano appena un
piatto di brodaglia e un pezzo di pane nero, un paio di scarpe di cuoio duro
con chiodi e una giacca di pelle di pecora e sopra calzoni di capra.
Le vedove portavano il lutto per tutta la vita e
per più di un anno andavano avvolti in enormi scialli neri che facevano
scorgere appena il viso. Tali donne non davano retta a nessun uomo. Il giorno
dopo il funerale, tutti gli abitini delle bambine e le camicine dei maschi
venivano tinti di nero in una caldaia, da far indossare agli orfanelli. Ai
bambini sotto i dieci anni era proibito far vedere la madre o il padre morti,
perciò venivano allontanati da casa e si diceva loro che il genitore era
partito, facendogli credere che sarebbe ritornato; ma la pietosa bugia causava
la continua ricerca di mamma o papà. Si pensava che fosse meglio per i piccoli
conservare il ricordo dei genitori vivi e non già da morti.
Era usanza che i parenti e i compari andassero a
piangere il morto in coro, decantandone la bontà, i pregi e le virtù. Quando
moriva una moglie, la madre della defunta e le sorelle si scapigliavano, con le
trecce sciolte fino alle gambe, piangevano alla lunga bagnandosi tutte, mentre
il marito prendeva a testate la bara, procurandosi pure lui delle lesioni
sanguinanti. Se moriva il marito, la moglie le sorelle e la madre si univano in
identiche litanie di pianto. Per otto giorni i parenti e compari si occupavano
del "cunzo", cioè portavano alla casa del defunto il pranzo completo di tutto (carne,
maccheroni, vino, frutta), sia a mezzogiorno sia la sera, facendo a turno gli
offerenti.
Tutte usanze di un mondo che non esiste più.
Mario BRUNO
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