Con cuore sincero esprimo gratitudine e
riconoscenza all'amata terra natia di Tursi, perché ha udito il mio primo
vagito, guidato i primi passi dell'avventura della vita e ospitato nel grembo
terreno le spoglie mortali dei miei antenati. Da ragazzo percorrevo, su e giù,
le tortuose vie, sognando l'avvenire e mi rattristavo al pensiero che un giorno
sarei andato altrove in cerca di fortuna, lasciando il mio bel paese, custode
delle mie radici. Vivere lontano è un continuo soffrire. Nei momenti di
nostalgia e di sofferenza, mi consola il pensiero visivo dei ricordi. Mi appare
come un presepio sceso dal cielo per donare pace e amore al cuore inquieto.
Rivedo la vetusta Rabatana (dove io sono nato), poggiata sull'alto trono collinare
che domina profondi burroni e le vallate circostanti, come dei fiordi norvegesi,
da dove lo sguardo spazia lungo il vasto orizzonte di bei paesaggi verso il mar
Ionio. Con la chiesa Collegiata di S.
Maria Maggiore e lo scomparso castello-fortilizio, si testimonia il glorioso
passato storico di un presidio oggi in declino, per l'abbandono e il crollo del
centro storico, mentre molti suoi abitanti, attratti dalle moderne comodità, si
sono trasferiti nella zona pianeggiante del capoluogo. L'antico borgo è un
patrimonio da valorizzare e trasmetterlo alle future generazioni. Perciò
richiamo l'attenzione dei giovani, eredi di coloro che con sacrifici e difficoltà
diedero vita al primo quartiere tursitano, perché procedano al recupero ed alla
ricostruzione della zona rovinata, seguendo l'esempio del mio ex vicino di casa
Antonio POPIA (fu Filippo), il quale, con coraggio,
rischio, impegno ed intelligenza ha già avviato l'opera di rinascita,
realizzando un invidiabile insediamento turistico, con un moderno ristorante ed
un confortevole albergo che offre un sereno riposo.
Il rione di San
Michele e le zone limitrofe, mi ricordano momenti lieti e tristi dell'infanzia
e dell'adolescenza, che costituirono le prime esperienze della vita. Da ragazzo, girovagando per il paese, ascoltavo
con piacere il tintinnare dell'incudine e martello delle forge, che stimolavano
l'operosità della vita. Erano gestite dai valenti fabbri e maniscalchi: Domenico RAGAZZO e Salvatore LAPOLLA, con rispettive officine nella Petrizza vicino al Piccicarello della Rabatana; Nicola
ZITO e il figlio Giovanni,
originari di Colobraro, operanti in via Pietro Micca e in seguito nella
sottostante strada rotabile; Vincenzo TAURO,
sulla via rotabile sottostante alle Vigghiotte;
Gaetano BRUNO, con fucina vicino al
negozio di MORISCO e di fronte al palazzo
GUIDA; Berardino RAGAZZO e Francesco
GALLO, entrambi con officina in via Roma, il primo verso le palazzine
popolari ed il secondo nel versante opposto; e Biase RAGAZZO nel rione Vallone. Nei momenti liberi mi recavo nella
vicina "forgia" di mastro Nicola, persona seria, corretta, affabile e grande
lavoratore, il quale, grondante sudore dalla fronte, brandiva energicamente il
martello con cui sagomava con maestria attrezzi di lavoro e ferri dei quadrupedi.
Allegramente, canticchiava una vecchia canzone, della quale ricordo ancora
l'inizio: "Al fumo del treno Maddalena è
rimasta ‘prena' (incinta)". Qualche volta lo aiutavo, azionando un grosso
mantice, che soffiava sui carboni accesi per arroventare il ferro da lavorare.
Osservavo con interesse, quando si procedeva alla ferratura delle bestie. Qualche
mulo od asino irrequieto, si muoveva continuamente, suscitando l'ira dell'anziano
maniscalco e di colui che con vigore cercava di tenerne fermo la gamba; ma qualche
volta accadeva che il quadrupede per liberarsi dall'incomodo stato, reagiva strattonando
violentemente la persona che gli reggeva l'arto, facendolo cadere per terra.
Altro spettacolo cui ero attratto, era costituito
dal vociare della gente e dal frastuono delle cavalcature che andavano e
venivano dalla campagna. Maggior baccano vi era la sera, quando i contadini
ritornavano dal lavoro, conducendo i loro asini e muli con pesante carico di
derrate o di altra merce. Alcuni animali, fiaccati dal peso della soma e dal
lungo percorso già compiuto, stentavano a percorrere il tratto di strada,
allora, lastricata da calvi ciottoli fluviali, che si sviluppava in salita ed
in piccoli tornanti verso la zona alta di S. Michele e della Rabatana. Per costringerli
a camminare, una persona li tirava a viva forza con la cavezza ed un'altra si
poneva dietro, incitandoli ad alta voce con qualche colpo di frusta sulla
groppa. Ma si verificava che qualche somaro o mulo anziano, con scarse energie,
scivolava per terra, provocando la collera dei conducenti, che imprecavano
anche con qualche bestemmia. In loro aiuto intervenivano dei passanti, che collaboravano
a fare rialzare l'animale, a ricomporre il carico ed a ripristinare il traffico.
Fra le tante cose, rivedo: l'ex palazzo del barone Brancalasso, un
tempo simbolo del potere e la sottostante
sede della Società operai, dove, da ragazzo, vi entravo saltuariamente per
ascoltare le trasmissioni radio; la Piazza Plebiscito, una volta luogo importante
d'incontro, d'affari e di avvenimenti lieti e tristi; la chiesa di S.Filippo Neri e l'attiguo grande edificio, dove avevano
sede il municipio, le scuole elementari e la caserma dei Carabinieri, che
costituiva importante punto di riferimento e di orgoglio tursitano.
Grande emozione provoca la visione della Cattedrale, risorta dall'incendio, le
altre chiese parrocchiali, il santuario
d'Anglona, gli ex conventi di S.
Francesco e di S. Rocco, che ricordano un periodo denso di cultura e di
fede religiosa, un tempo importanti centri di valori e di guida del cammino
dell'uomo.
Provo grande mestizia osservando il cambiamento dei
vecchi palazzi gentilizi, appartenuti
a nobili e ricche famiglie che hanno perso la notorietà, poi alienati dai
proprietari in favore di altra gente che ne ha mutato l'aspetto e l'importanza.
Resto rapito ancora dai calanchi e i burroni, scolpiti dal vento e dalle piogge,
e dalle cantine scavate nelle rocce
renose, che fanno felice chi vi entra, per inebriarsi di buon vino, tutti
circondano l'abitato caratteristico ed attirano l'attenzione dei visitatori.
Noti e ampi sono gli aranceti lussureggianti
che vegetano lungo le sponde dei fiumi Agri e Sinni; in primavera le sue
miriadi fiori di zagara riempiono l'aria di gradevole odore, mentre in autunno
producono gustosi agrumi (l'oro giallo), che un tempo erano primarie fonti di
lavoro, di commercio e di ricchezza. Le origini
dell'antica colonia magnogreca Pandosia, della vecchia latina Anglona, dei
Saraceni e di altre civiltà, hanno contribuito a formare una società tursitana
civile, attiva ed operosa. Ha dato pure i
natali a uomini illustri, che ci hanno onorato con opere meritorie. Sono
comunque notevoli i progressi, grazie ai sacrifici, al lavoro ed all'impegno di
tutti i tursitani. Molti giovani si sono specializzati in vari mestieri, hanno frequentato
le scuole superiori, conseguendo diplomi e lauree, e svolgendo importanti
incarichi pubblici, un tempo consentito soltanto alla categoria dei benestanti.
Grande piacere suscitano i moderni edifici pubblici e privati costruiti nella
zona di Santiquaranta, lungo il
canale e sull'ex vigneto ed uliveto di Giosino
FLORIO. Tutti ciò gratifica e stimola a migliorare l'immagine e la vita
degli uomini.
Per l'avvenire sereno e prosperoso di Tursi,
imploro la Madonna d'Anglona, affinché ci protegga da ogni male ed inondi di grazia i
tursitani dovunque si trovino.
Francesco D'ERRICO
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