D. - Gentile Avvocato,
mio marito, dopo 12 anni di matrimonio, regolarmente celebrato in chiesa, ha cambiato religione.
Devo subito ammettere, per ragioni di onestà, che continua ad essere un buon padre ed anche un buon marito. Pur tuttavia, ha ormai delle idee che io trovo incondivisibili e nelle quali non ritrovo l'uomo che ho sposato tanto che ho deciso di chiedere la separazione. Secondo Lei sarebbe lecito chiedere la separazione con addebito? In fondo, se il matrimonio naufraga, è solo perché mio marito, dopo avere aderito ad una nuova religione, è diventato un'altra persone.
Grazie, Patrizia
R. - Pregiatissima Signora,
credo sia opportuno evidenziare, prima di ogni altro aspetto, che la libertà religiosa è solennemente riconosciuta, in favore di ogni cittadino, all'articolo 19 della Costituzione.
Tale diritto, avente
precisa tutela costituzionale, riguardando la dimensione più intima ed
incoercibile della persona, non può, in linea di massima, subire
mortificazioni o limitazioni per l'effetto del matrimonio. Non deve però escludersi che
la professione, da parte di un coniuge, della propria fede religiosa,
possa innescare dinamiche disturbanti dell'equilibrio familiare
consolidato e quindi tali da compromettere l'affectio coniugalis. L'esperienza giudiziaria insegna che ciò può accadere o quando un
coniuge, nel corso della vita matrimoniale, muti la propria fede
religiosa oppure quando, pur mantenendo quella che già professava al
momento della contrazione del matrimonio, cominci a dedicarle maggiori
energie e a dedicarsi ad essa con maggiore intensità.Circa
il mutamento di fede, seppure questa determini la causa scatenante
della separazione, pare sia da escludersi la possibilità di un addebito.
Il principio affermato dalla giurisprudenza, infatti, prevede che non
rientri tra i doveri coniugali quello di essere fedele sempre allo
stesso credo religioso né quello di avere la stessa fede del proprio
coniuge (cfr. Cassazione Civile, 9 agosto 1988, n. 4892).
Le scelte in materia
religiosa, quindi, in quanto diretta affermazione di un valore
costituzionalmente riconosciuto e tutelato, devono essere sempre
garantite, anche nella ipotesi in cui, per la loro incidenza nella vita
della coppia, comportino la crisi coniugale (cfr. Cassazione Civile, 6
dicembre 1989, n. 5397). D'altra
parte, l'impegno a rispettare la personalità del coniuge, strettamente
connesso all'obbligo di assistenza morale, impone, ad entrambi gli
sposi, di rispettare vicendevolmente le proprie scelte, comprese quelle
di tipo religioso. Quindi,
badi bene, mentre non viola alcun obbligo il coniuge che muti il
proprio credo religioso, sicuramente viene meno ai propri doveri
coniugali chi cerca di ostacolare l'altro nel proprio diritto ad aderire
ad una diversa fede, manifestandosi intollerante ed ostacolandone le
pratiche di culto. Naturalmente,
affinché la disapprovazione di un coniuge verso il mutamento di fede
dell'altro rilevi ai fini dell'addebitabilità della separazione, è
necessario che detta disapprovazione si manifesti attraverso condotte
obiettivamente ostruzionistiche ed impeditive, ossia tali da comportare
una concreta lesione del diritto costituzionalmente garantito
dell'altro, rimanendo, invece, del tutto ininfluente la mera non
condivisione.
In
forza di tale principio, è dunque da ritenersi lecito anche il
comportamento del coniuge che scoraggi i mutamenti che l'altro abbia
intrapreso in ambito religioso.
Interessante,
in proposito, il principio espresso dal Tribunale di Taranto che ha
sottolineato come il disperato sforzo compiuto dal marito nel tentativo
di recuperare la moglie all'originaria e comune religione non rilevi ai
fini dell'addebitabilità della separazione (Tribunale di Taranto,
sentenza del 19 settembre 1990). In
casi come questi, comunque, sarebbe doveroso individuare un preciso
limite di confine tra l'intolleranza per la scelta religiosa dell'altro
coniuge ed una giustificabile opera di proselitismo, tesa a recuperare
quest'ultimo alle sue precedenti convinzioni religiose. Tale
limite, secondo autorevole dottrina, è rappresentato proprio dal
rispetto della personalità dell'altro coniuge e dal dovuto
riconoscimento dei suoi diritti fondamentali. Rimane
comunque inteso che, qualora uno dei coniugi, proprio a causa del
mutamento di fede compiuto dall'altro, ritenga intollerabile la
convivenza coniugale e decida, quindi, di adire le vie legali per
ottenere la separazione, questa dovrà essergli senz'altro concessa senza
che gli si possa essere addebitata.
Il
discorso diventa sicuramente più delicato nelle ipotesi in cui il
coniuge, dopo avere aderito ad una nuova fede religiosa, pretenda di
imporre nella vita di coppia i principi ed i precetti ad essa relativi. Si
pensi, in proposito, al marito che, dopo avere aderito alla fede
islamica, imponga di rivoluzionare, improvvisamente, i ruoli di marito e
di moglie secondo il dettato della nuova religione. Non
vi è dubbio che, in siffatte ipotesi, il diritto sancito dall'articolo
19 della Costituzione sia destinato a configgere con i doveri
matrimoniali e, sicuramente, laddove la crisi coniugale degeneri nella
separazione, quest'ultima può essere addebitata al coniuge trasgressore. Anche
in tema di libertà di religione, invero, vige il principio per cui il
rispetto della libertà individuale non possa affermarsi sino al punto di
rendere lecita la violazione degli obblighi familiari. E'dunque
necessario, come a più riprese e senza oscillazioni ribadito dalla
Corte di Cassazione, che il coniuge che ha mutato orientamento religioso
si dimostri capace di equilibrare le esigenze della famiglia con quella
della libera esplicazione della sua personalità (cfr. Cassazione
Civile, 23 agosto 1985, n. 4498, Cassazione Civile, 9 agosto 1988, n.
4892 e Cassazione Civile, 7 febbraio 1995, n. 1401).
La
separazione personale dei coniugi, dunque, non può essere pronunciata
con addebito al coniuge che si sia convertito ad altra religione ed
abbia abbandonato la fede religiosa precedentemente seguita, salvo che
resti accertato, concretamente ed obiettivamente, che le condotte
assunte per l'effetto della nuova scelta religiosa abbiano importato
violazione del dovere di assistenza matrimoniale, così da rendere
intollerabile la prosecuzione della convivenza. E
così, è stata ritenuta addebitabile la separazione al marito che,
privilegiando in via esclusiva i propri doveri religiosi, era venuto
meno ai doveri elementari di assistenza, imponendo alla moglie uno stile
di vita non condiviso, a partire dagli atti più minuti della
quotidianità fino all'aspetto esteriore ed all'abbigliamento, conforme
alla più stretta osservanza dei precetti religiosi (Tribunale di
Bologna, 5 febbraio 1997).
Avvocato Luciano Natale Vinci
Diritto di
Famiglia e Tutela dei minori
|