SANDRO PERTINI E ORIANA
FALLACI, UNA STORICA INTERVISTA - Roma, dicembre 1973
(O.F.) L'uomo non ha bisogno di presentazioni.
Si sa tutto su Sandro Pertini, presidente della Camera. Si conosce il suo bel
passato di antifascista condannato all'ergastolo e a morte, il suo bel presente
di socialista privo di fanatismi e di dogmi, il suo coraggio, la sua onestà, la
sua dignità, la sua lingua lunga.
Nessun segreto da svelare su questo gran
signore che della libertà ha fatto la sua religione, della disubbidienza il suo
sistema di vita, del buon gusto la sua legge.Nessuna scoperta da annunciare su
questo gran vecchio dilaniato dalle dolcezze e dai furori, collerico,
impertinente, elegante di dentro e di fuori, con quelle giacche sempre
impeccabili, quei pantaloni sempre stirati, quel corpo minuto, fragile, che
nemmeno le legnate degli squadristi riuscirono a frantumare. È noto che ama la
moglie, i quadri d'autore, le poesie, la musica, il teatro, la cultura, che è
un uomo di cultura e uno dei pochissimi politici di cui possiamo andar fieri in
Italia. È anche un uomo che ha tanto da dire, senza esser sollecitato. Infatti
non si intervista Sandro Pertini. Si ascolta Sandro Pertini. Nelle sei ore che
trascorsi con lui, sarò riuscita sì e no a piazzare quattro o cinque domande e
due o tre osservazioni. Eppure furono sei ore di incanto.
SANDRO PERTINI
. Sicché gli ho detto:
«Senta, la politica se non è morale non m'interessa. Io, se non è morale, non
la considero nemmeno politica. La considero una parolaccia che non voglio
pronunciare». E lui: «Ma caro Pertini! In politica, fare i morali è
un'ingenuità!». E io: «Senta, mi dia pure del sentimentale o dell'ingenuo.
Tanto non me ne offendo, per me anzi è un onore. Ma non esiste una moralità
pubblica e una moralità privata. La moralità è una sola, perbacco, e vale per
tutte le manifestazioni della vita. E chi approfitta della politica per
guadagnare poltrone o prebende non è un politico. È un affarista, un
disonesto». Gli ho detto proprio così, cara Oriana, e aggiungo: se li esamina
bene, questi che affermano in-politica-essere-onesti-è-un'ingenuità, scopre che
sono disonesti anche nella vita privata. Ladri di portafogli. Oh, la politica
io l'ho sempre vista come una missione da assolvere nell'interesse del popolo,
al servizio di una fede. L'ho scelta come una fede, come un lavoro, nello
stesso spirito dei preti che dicono «Sacerdos sum in aeternum». Lo capiva anche
mia madre. Mia madre non condivideva le mie idee: era una cattolica, lei, una
credente. Però era fiera di me e ripeteva: «Ah, se il mio Sandro fosse stato un
soldato di Cristo, che bel soldato di Cristo sarebbe!». E aveva ragione. Perché
io non avrei fatto il parroco o il cardinale. Avrei fatto il missionario, il...
ORIANA FALLACI
. Non a caso c'è quella sua frase: «Se
mi volto a guardare la strada che ho percorso, posso dire di aver speso bene la
mia vita».
Sì. E posso dirlo in coscienza, Oriana. Io ho fatto una scelta da giovane e, se
per un prodigio tornassi indietro, rifarei la stessa scelta. Perché era una
scelta giusta. Vede, io di solito non vado ai ricevimenti. Preferisco stare con
mia moglie, la sera, o leggermi un libro o recarmi a teatro. Ma a volte capita
che debba andare ai ricevimenti e allora vedo quei professionisti ricchi e
provo una tale pena per loro. Hanno conquistato il denaro, sì. Hanno
conquistato il successo e il potere. Eppure sono frustrati perché si sono
accorti di aver avuto una vita vuota. Non vorrei essere al posto loro quando
viene l'ora dei lupi. Ingmar Bergman la chiama l'ora dei lupi, cioè l'ora
antelucana, l'ora in cui ci troviamo soli anche se accanto c'è la compagna
della nostra vita, e non possiamo mentire a noi stessi. La mia ora dei lupi è
alle cinque del mattino, quando mi sveglio magari per riaddormentarmi, e nella
penombra analizzo ciò che ho fatto il giorno prima.
Ne esce un esame di
coscienza che si allunga nel tempo, nel passato, e deve credermi, Oriana: non
ci trovo errori. Oh, non che possa negare d'aver commesso errori. Chi cammina
talvolta cade. Solo chi sta seduto non cade mai. Però i miei errori sono frange
che invariabilmente nascono dal mio caratteraccio. Non sono errori sostanziali.
Il mio caratteraccio... Sono sempre stato un passionale, un impetuoso. Anche da
giovane e prima di finire in carcere, sa? Non posso darne la colpa al carcere,
alle sofferenze, e anzi ora son migliorato. Questa mia carica, se non altro, ha
servito a imbrigliare un poco le mie impazienze. A impormi un po' di
self-control. Oh, quante persone ho investito con le mie ire improvvise, i miei
atteggiamenti rigidi, le mie interruzioni! Compagni di partito, colleghi.
Perfino come presidente della Camera, sa? Chi è stato investito da me non
immagina certo quanto me ne rammarichi, quanto me ne sia sempre rammaricato. A
mia discolpa posso dire soltanto che la mia passionalità è sempre stata morale
e non fisica, la mia violenza è sempre stata verbale e non materiale. Non ho
mai fatto a pugni. Ho preso tante legnate dai fascisti e non gliele ho mai
restituite. E sebbene ritenga giusto che un uomo di fede abbia violenze perché,
quando una cosa è stonata, l'uomo di fede deve dirlo con violenza, dopo me ne
dispiace. Così all'ora dei lupi brontolo: accidenti, ho fatto male a lasciarmi
trascinare dall'ira con quel mio compagno, con quel mio collega. Oggi gli offro
un caffè e cerco di farmi scusare. Io sono umano, Oriana. Ecco perché sono un
cattivo politico.
Un
cattivo politico?
Sì. In politica bisogna essere freddi, bisogna essere cinici. Io non sono
né freddo né cinico e di conseguenza... Le racconto una cosa sola. Nel 1929 mi
denunciò un fascista: Icardio Saroldi. Mi riconobbe per strada, mi fece
seguire, arrestare, e fu in quell'occasione che rimasi dentro quindici anni.
Tutta la mia giovinezza, cara Oriana. In carcere ci sono andato coi capelli
neri e ne sono uscito coi capelli grigi. Ebbene, nel 1945, subito dopo la
liberazione di Milano, giunge un corriere politico da Savona e mi dice:
«Icardio Saroldi è stato preso e stanno per fucilarlo». «Per quale ragione
stanno per fucilarlo?», chiedo. «Perché ti ha denunciato nel 1929», risponde.
«Ah, no! Se è per questo, no. Mi oppongo. Sarebbe una vendetta personale e di
vendette personali io non ne ho mai volute. Io la lotta l'ho sempre vista nel
suo complesso, non come lotta al singolo.» Poi do ordine di liberarlo e,
qualche tempo dopo, costui manda sua moglie a ringraziarmi. Esauriti i
ringraziamenti, questa moglie mi dice: «Posso chiederle un altro favore?».
«Prego, signora, si figuri.»
«Ecco, le dispiacerebbe farmi una dichiarazione
dove afferma che mio marito non la denunciò?» Mi arrabbiai. Gridai: «No,
signora, no, io sono buono ma due volte buono significa imbecille». La mandai
via e... poi Saroldi entrò nel Movimento sociale. Mi spiego? Un altro non se la
sarebbe presa come me, non si sarebbe meravigliato. Io invece ne soffro e mi
irrigidisco... Un po' la storia del questore Guida. Lei sa che al presidente
della Repubblica, della Camera, del Senato, spetta viaggiare col saloncino, che
poi è una vettura speciale attaccata al treno. Sicché vado a Milano e, quando
il saloncino è fermo su un binario morto perché sto facendo colazione, il mio
segretario dice: «Il questore Guida ha chiesto di ossequiarla, signor
presidente». E io rispondo: «Riferisca al questore Guida che il presidente
della Camera Sandro Pertini non intende riceverlo». Mica perché era stato
direttore della colonia di Ventotene, sa? Non fosse stato che per Ventotene,
avrei pensato: ormai tu sei questore e voglio dimenticare che hai diretto
quella colonia, che vieni dal fascismo, che eri un fascista. Perché su di lui
gravava, grava, l'ombra della morte di Pinelli. E a me basta che Pinelli sia
morto in quel modo misterioso quando Guida era questore di Milano perché mi
rifiuti di accettare gli ossequi di Guida. Oriana, io non sono capace di far
compromessi!
Per
questo non ha mai voluto diventare presidente della Repubblica?
Eh! Eh! Non mi sarei proprio sentito a mio agio, lì al Quirinale! Infatti
ogni volta che qualcuno tentava di farmi eleggere, io appoggiavo un altro candidato.
L'ultima volta ho appoggiato Leone. E non me ne pento. È un uomo che ha una
grande carica umana e tra i democristiani non è un clericale, è un laico vero.
Inoltre non si dà arie, non è presuntuoso, ed è un gran giurista. Il che giova
a un capo di Stato. È un uomo giusto al posto giusto, sì. E gli sono amico
sebbene abbia avuto molti scontri con lui, ma io mi chiedo chi non abbia avuto
scontri con me. E sono felice di non trovarmi al suo posto perché... Oriana,
parliamoci chiaro: io non me la sarei sentita di mandar telegrammi gentili a
certi capi di Stato. Non me la sarei sentita di stringer loro la mano. Io,
quale presidente della Camera, mi son rifiutato di ricevere il presidente del
Sud Africa, l'ambasciatore greco, l'ambasciatore spagnolo, l'ambasciatore
portoghese. Eh! Non hanno messo piede, quei signori, qui dentro! Non ce lo
mettono. Si rivolgono al mio segretario, come il questore Guida, spiegano di
voler rendere omaggio al presidente, e io gli fo rispondere che il presidente
non gradisce affatto il loro omaggio: il presidente non li riceve.
Al Quirinale
ci sarei costretto sennò dovremmo rompere le relazioni diplomatiche,
scoppierebbe una guerra: qui invece! Qui al massimo dichiarano guerra a
Pertini, come l'ambasciatore sovietico. Sapesse che diverbio ho avuto con
l'ambasciatore sovietico pei fatti di Praga! Voi ristabilite l'ordine coi carri
armati, gli ho detto, proprio alla maniera dei fascisti che lo ristabilivano
con le baionette. Voi volete l'ordine che c'è nelle galere, nei cimiteri! Ci
siamo lasciati male. Così male che non è più venuto da me e io non sono più
andato da lui. Però anche con Nixon mi lasciai freddamente: «Buongiorno,
buongiorno». Eh! Lui pronunciò quell'espressione pace-nella-sicurezza, e io
replicai: «No, no, presidente. Io ho detto pace e basta. Pace tout-court». Eh!
Lo sapevo ben io cosa intendeva, Nixon, con la parola sicurezza. C'era anche
Kissinger, io non sapevo che fosse Kissinger ma lo guardavo perché mi fissava e
intanto suggeriva le cose a Nixon. Non so cosa gli suggerisse. Forse gli diceva
che m'ero opposto al Patto atlantico e alla guerra in Vietnam. E si comportava
con la stessa freddezza di Nixon. Io, con altrettanta freddezza. Figuriamoci,
dunque, se sto al Quirinale a ricevere le credenziali di quello e di
quell'altro!
D'accordo,
però...
Non mi sembrò un tipo umano, Nixon. Mi sembrò molto arrogante, molto pieno di
sé. Uh, quella mascella! Non mi piace proprio, quella mascella. E quei
lineamenti da bulldog. Non mi piacciono proprio. Denunciano una prepotenza.
Intendiamoci: fino al momento in cui ci scontrammo, con me non fu arrogante.
All'inizio, anzi, fu quasi cordiale. Disse che conosceva il mio passato, che mi
faceva onore, che anche gli ufficiali americani avevano elogiato il mio
coraggio... Ma quando chiarii che ero per la libertà di tutti i popoli e che
certi focolai di guerra mi sdegnavano, tutto cambiò. E durò tre quarti d'ora,
il colloquio. Infatti fuori c'era Fanfani che scalpitava. Forse temeva che gli
portassi via il suo turno.
Insomma,
Pertini, lei è ancora l'uomo che fece pianger sua madre perché aveva chiesto la
domanda di grazia.
Lo stesso uomo, lo stesso! Se una cosa va contro la mia coscienza, io non
ci sto. Per esempio, quando ci fu da firmare il telegramma dei presidenti delle
assemblee europee alla giunta cilena. Era un telegramma duro ma finiva con le
parole: «Vogliate-credere-ai-sentimenti-della-nostra-alta-considerazione ».
Saltai su e: «Cos'è questa storia?». «Non vuol dire nulla, si tratta di
politesse française», risposero. E io: «C'è anche la politesse italienne. Io
non firmo». Allora telefonò Edgard Faure, il mio collega francese. Uomo
spiritoso, simpatico, scrittore di romanzi gialli. «Pertini, quella formula.» E
io: «No, caro collega, no. Io l'alta considerazione non gliela do a quegli
assassini che hanno ammazzato Allende, a quei criminali che hanno dimenticato
perfino cos'è un giuramento per gli ufficiali d'onore».
«Ma noi teniamo alla
sua firma, Pertini.» «Se ci tenete, togliete l'alta considerazione. » Bè, la
tolsero. Il telegramma partì come volevo io. E qui dentro mi comporto nello
stesso modo. Perché, mi ascolti, Oriana: finché sono presidente lo sono nei
termini voluti della mia coscienza e, se cercano di costringermi a fare
qualcosa che non mi convince, me ne vado. Do le dimissioni. Subito. Io nel mio
discorso di insediamento ho parlato della Resistenza e ho detto le cose chiaro
e tondo: dinanzi ai fascisti. Durante le interrogazioni sul Cile ho commemorato
Allende con un discorso assai forte: dinanzi ai fascisti. Dopo i fatti di Praga
ho commemorato Jan Palach: dinanzi ai comunisti. Ho anche reso omaggio ad
Alessandro Panagulis quando i colonnelli lo hanno condannato a morte. E ho
detto cose per cui si sono alzati tutti in piedi: dai comunisti ai fascisti. Lo
stesso per Palach. Lo stesso per Allende... Sì, Oriana: sono ancora l'uomo che
fece piangere sua madre perché aveva presentato domanda di grazia.
Pertini,
si è pentito mai di averla fatta piangere?
Oh, sì! Se penso che le scrissi: «Io ti considero morta per ciò che hai
fatto...». Se penso che la tenni due mesi senza posta... Ero esasperato ma
commisi ugualmente una crudeltà. Me ne resi ben conto il giorno in cui la
censura lasciò passare una lettera dei miei amici di Savona. Era una lettera in
cui mi dicevano: Sandro, tu la stai ammazzando questa povera vecchia. Lei non è
colpevole, Sandro: fummo noi a cercarla e chiederle di domandare la grazia. Lei
rispondeva no, non devo farla la domanda di grazia perché il mio Sandro non
vuole, gliel'ho promesso, gliel'ho giurato, voglio esser degna di lui. Ma noi
insistemmo: signora, suo figlio sta morendo, solo lei può salvarlo. E una
madre, pur di salvare il figlio, si aggrappa a un ferro rovente. Appena seppi
la verità, le scrissi e... L'avrei rivista nel 1943, la mia mamma. Per pochi
giorni. E poi non l'avrei rivista più...
Dice che i tedeschi avevano occupato
la casa dove lei viveva sola. Dice che dormivano lì e lei ne soffriva tanto. Si
ribellava, diceva: «Mi fate le prepotenze perché non c'è mio figlio! Ma verrà,
mio figlio, a mettervi a posto!». Si ammalò, in quel periodo. Cadde da una
sedia e si ammalò. I compagni di Milano lo sapevano e me lo tennero nascosto.
Temevano che corressi ad abbracciarla e così mi facessi arrestare dai tedeschi.
E io non la rividi più, la mia mamma. Morì nel 1945, lo seppi durante la
Liberazione. Il destino. Mia moglie entrò nel mio studio con una compagna e
disse: Sandro... Oh! Mi scusi, Oriana... Ma io ho amato così immensamente mia
madre... Dice che stava sempre seduta sul muricciolo... C'era un muricciolo
dinanzi a casa mia... E la gente passava e le diceva: «Cosa fa, signora Gin,
cosa aspetta?». Perché la chiamavano signora Gin. E lei rispondeva: «Aspetto il
mio Sandro». Per anni e anni e anni. Tutti gli anni che son stato in galera...
Pertini,
non le capita mai di maledire gli anni passati in galera?
Senta, sarebbe da spavaldi dire
sono-contento-di-aver-vissuto-quindici-anni-in-prigione. Parliamoci chiaro,
Oriana: la mia giovinezza s'è esaurita nella rinuncia. Ero un giovane ardente,
esuberante: lo sapevano tutti a Savona. Così quella rinuncia ha pesato su me.
Oh, se ha pesato! Però non li maledico quegli anni, non maledico il fatto di
aver pagato quel prezzo. Un uomo di fede non può sfuggire ai sacrifici e deve
pagar di persona. Altrimenti non è un uomo di fede. Io, in carcere, pensavo:
non sono qui dentro per un reato comune ma per aver difeso la mia fede. E la
fierezza compensava la rinuncia. D'accordo, ogni tanto v'era un cedimento.
Quella mattina ad esempio in cui udii le campane di Ventotene e aprii la
finestra e mi investì la primavera, un profumo di fiori... Sa, i fiori che
sbocciano la notte e all'alba spandono il loro profumo... E mentre ascoltavo
quelle campane, mentre aspiravo quel profumo, giunse l'eco di un canto d'amore.
Un canto che si levava da una barca di pescatori. E mi prese come un capogiro,
come un dolore per questa vita che entrava dalla finestra e che io non potevo
toccare...
Si ridestarono in me tutti i desideri, tumulti di desideri... Può
immaginarli, Oriana, i desideri di un giovane che non ha ancora trent'anni. Ma
io mi strinsi la testa tra le mani, mi buttai un po' d'acqua fredda sul volto e
mi dissi: «Non fare il cretino, Sandro, non lasciarti cogliere dalle
nostalgie». Oriana, se io fossi stato in carcere per un reato comune, per
bancarotta fraudolenta, che so, per un assegno a vuoto, che so, io... mi sarei
suicidato. Perché, se ci stai per un reato comune, la galera è orrenda. Se
invece ci stai per una fede politica e sai di rappresentare un simbolo, ecco:
la tua giornata ha un senso e la tua cella non è più buia. Io non sono credente
ma in carcere ho letto la storia dei primi cristiani e ho capito quel che mi
raccontava mia madre quand'ero bambino. Li ho capiti i martiri che, per
rifiutarsi d'accendere due granelli d'incenso sotto la statua di Cesare, si
lasciavano sbranare dai leoni. E ho capito Cristo, ho ammirato pazzamente la
vita di Cristo. Perché è la vita di un uomo di fede, è la vita di un uomo. Un
uomo è un uomo quando vince il dolore e non tradisce la propria idea. Io non
l'ho mai tradita, Oriana.
Lo
so. Lo sanno tutti. Infatti nessuno parla male di Pertini. Nemmeno gli
avversari, i nemici.
Sì, ed è una consolazione come il giorno in cui Leto... Leto, il capo
dell'OVRA. Molto intelligente, molto preparato, anche se era il capo dell'OVRA:
lo dica pure. Del resto nessuno è più informato di lui sugli uomini politici
italiani. Ebbene, il giorno in cui mi consegnò i documenti che ho usato per il
mio libro Sei condanne e
due evasioni, Leto ci appoggiò le mani sopra ed esclamò: «Pertini,
bisogna dire che non c'è mai stata un'oscillazione nella sua condotta. Non c'è
proprio nulla da dire contro di lei, non c'è un neo in tutta la sua vita». Però
ho pagato così duramente, Oriana. Ho pagato anche con la morte di due fratelli...
No, non ho alcuna difficoltà a parlare di quello che s'era iscritto al Partito
Fascista. Lo amavo tanto... Eravamo due amici prima che due fratelli... Avevamo
fatto insieme la prima guerra mondiale e... Pippo era molto diverso da me.
Era
estroverso, cordiale, e non capiva nulla di politica. Nulla. Sa perché si
iscrisse al Partito Fascista, nel 1923? Perché, durante una manifestazione, si
vide sputare addosso dagli operai. Faceva l'ufficiale di carriera e... Il
destino. Ci togliemmo reciprocamente il saluto. Se per caso ci incontravamo per
strada, io guardavo da una parte e lui dall'altra. Se io andavo da mia madre,
lui non ci andava. Se lui andava da mia madre, io non ci andavo. Per non
vederci. Gli riparlai soltanto nel 1925, dopo che ero stato arrestato e
processato a Savona. Ormai libero, facevo di nuovo l'avvocato. E Pippo venne al
mio studio e, piangendo come un bambino, confessò che almeno tre volte s'era
avvicinato al carcere per visitarmi. Non aveva avuto il coraggio di presentarsi
per timore che lo rimproverassi. Poi andai in Francia. Poi tornai, fui
arrestato di nuovo, processato di nuovo, condannato di nuovo, stavolta
all'ergastolo e allora... Allora lui uscì dal Partito Fascista e a quarantun
anni morì. Di crepacuore.
Cosa
significa morto di crepacuore?
Significa morto di crepacuore. Di dolore. Di strazio. Era sano, lo colse un
infarto cardiaco. E il pensiero di non essermi riconciliato con lui mi schiantò
in modo tale che in breve tempo diventai canuto. Una sera il direttore del
carcere mi osserva sbalordito ed esclama: «Cosa è successo, Pertini?».
«Perché?», rispondo. «Perché avete i capelli bianchi, Pertini. » Ecco la storia
di mio fratello Pippo. E se Pippo ha commesso un errore, ha pagato. E io con
lui... Io con lui... E poi avevo un altro fratello che si chiamava Eugenio. Tra
me ed Eugenio c'erano solo due anni di differenza. Così crescemmo insieme: al
collegio insieme, al ginnasio insieme. Poi lui andò in America e, quando tornò,
io ero in carcere da tanto tempo. Ho ricostruito per caso la sua via crucis.
L'ho ricostruita dopo la Liberazione, attraverso un maresciallo dei carabinieri
di Genova. Venne da me e mi chiese: «Lei è parente di Eugenio Pertini?». «Sì, è
mio fratello.» «Ah! Ora capisco tutto.» E mi raccontò che un giorno del 1944 aveva
incontrato Eugenio e gli aveva rivolto la stessa domanda: «Lei è parente di
Sandro Pertini?». «Sì, è mio fratello.» «Ah! Devo darle una brutta notizia. Suo
fratello è stato fucilato a Forte Boccea l'altra mattina.»
Glielo aveva detto
convinto che fosse vero: io ero stato condannato a morte, con Saragat, e la
notizia della mia evasione non era giunta in Liguria. Così Eugenio era caduto
su una poltrona, come svenuto, e... Vede, allo stesso modo in cui Pippo non
capiva nulla di politica, Eugenio non aveva mai fatto della politica.
Oltretutto era un po' claudicante. Ma dopo quella notizia si iscrisse al
Partito comunista e si abbandonò a una attività sfrenata. Fu arrestato mentre
attaccava manifesti contro i nazisti. Fu picchiato selvaggiamente, poi condotto
al campo di Bolzano dove gli chiesero di nuovo: «Sei parente di Sandro
Pertini?». «Sì, era mio fratello.» «Era?» «Me l'hanno fucilato.» «Macché
fucilato! Dirige la Resistenza.» E lui si mise a piangere di gioia, m'hanno
raccontato, e da quel momento si comportò ancora meglio. Lo portarono a
Flossenbürg e... Questo è il destino, cara Oriana, il destino! Perché sono
stato a Flossenbürg, e ho fatto i calcoli, e ho scoperto che nello stesso
momento in cui alla testa dei partigiani inneggiavo alla libertà riconquistata
in Milano... alla stessa ora dello stesso giorno... 25 aprile 1945... mio
fratello veniva fucilato nel campo di Flossenbürg... Mio fratello Eugenio e...
prima Pippo e poi Eugenio e... Oriana... mi creda... abbiamo pagato... Oddio!
Pertini,
mi perdoni, Pertini. Mi perdoni d'averla lasciata parlare di questo.
Non importa. Non bisogna aver paura di piangere. Non bisogna frenare le
lacrime quando vogliono uscire. Un uomo deve saper piangere. Ma lei deve capire
perché uso così spesso il verbo pagare.
E
la parola destino.
Il destino. Lo chiami destino, le chiami coincidenze, però le coincidenze della
mia vita sono coincidenze eccessive per sembrare solo coincidenze. Pensi al mio
incontro con Mussolini, poco prima della liberazione di Milano. Vengo a sapere
che i rappresentanti del CLN Alta Italia sono riuniti da Schuster, così mi
precipito all'arcivescovado, salgo su per una rampa della scalinata, e giù per
l'altra rampa vedo scendere un vecchio in uniforme circondato da gerarchi. Un
vecchio molto pallido, molto scavato. Resto un po' incerto e poi dico a me
stesso: «Ma quello è Mussolini!». Era proprio Mussolini che s'era appena recato
da Schuster per dire che era pronto ad arrendersi purché nei suoi confronti
fossero applicate le norme dei Diritti delle Genti. Quando Schuster parlò di
Diritti delle Genti io risposi: «Se si arrende, sarà consegnato al CLN. Il CLN
lo affiderà a un tribunale del popolo e giustizia sarà fatta». Allora
intervenne il prefetto di Milano, e disse che io non avevo assolutamente a
cuore le sorti di Milano: se Mussolini fosse morto, i tedeschi avrebbero messo
la città a ferro e fuoco.
E a lui risposi: «Senta, è dal 1922 che io ho a cuore
non solo le sorti di Milano ma di tutta l'Italia. La ruota dell'insurrezione ha
già incominciato a girare. Non saremo né io né lei a fermarla». Oh, io non ebbi
mai dubbi sul fatto che Mussolini dovesse arrendersi al CLN e venir fucilato.
Dovevamo impedire che finisse nelle mani degli alleati che lo volevano vivo.
Sul fatto di impedire che finisse nelle mani degli alleati, del resto, ci
mostrammo tutti intransigenti. Non a caso, quando sapemmo che Mussolini era
tornato in prefettura, volevamo prenderlo lì. Ma la prefettura era presidiata
dai carri armati tedeschi e, quando arrivammo, lui era già partito per il suo
destino. Cioè Dongo. Chiariamo bene questo punto: Mussolini non fu fucilato per
iniziativa personale di nessuno. Non è vero, ad esempio, che Walter Audisio
ricevette l'ordine da Cadorna. Lo ricevette dal Comitato di liberazione
nazionale. Scritto. Il documento esiste: firmato da me per il Partito
socialista, da Leo Valiani per il Partito d'azione, da Longo e Sereni per il
Partito comunista, da Arpesani per il Partito liberale, da Marazza per la
Democrazia cristiana, e da Cadorna. Esiste, si può trovare, si può pubblicare.
Da esso risulta che il CLN si assume l'intera responsabilità per la morte di
Mussolini e dà ordine di fucilarlo.
Lei
personalmente gli avrebbe sparato, Pertini?
Oriana, devo dirle la verità. Io ho sempre sparato poco, e non credo di
aver ammazzato nessuno. Neanche nella prima guerra mondiale dove, sebbene la
avversassi, mi comportai con grande senso di responsabilità. Avevo diciannove
anni quando andai a quella guerra. Ero sottotenente mitragliere e, un giorno,
sulla Bainsizza... Vedo arrivare uno con le mani alzate. Fermi, dico, si dà
prigioniero. Lui viene avanti, cade nella trincea, e ha il volto a pezzi. Una
maschera di sangue. Sa cosa feci, allora? Buttai via il caricatore della mia
rivoltella e non ce lo rimisi mai più. Da quel giorno, andai sempre all'assalto
con una rivoltella senza caricatore. Così Mussolini... Poiché Mussolini doveva
essere giustiziato, io non so cosa avrei fatto se fosse scappato dinanzi ai
miei occhi. Penso che gli avrei sparato, sì. Ma, eccettuato quel caso, gli
avrei fatto sparare da un plotone di esecuzione.
Sono un uomo spiritualmente
violento, le ripeto, non fisicamente violento. Quando mi dissero che il
cadavere di Mussolini era stato portato a piazzale Loreto, corsi con mia moglie
e Filippo Carpi. I corpi non erano appesi. Stavano per terra e la folla ci
sputava sopra, urlando. Mi feci riconoscere e mi arrabbiai: «Tenete indietro la
folla!». Poi andai al CLN e dissi che era una cosa indegna: giustizia era stata
fatta, dunque non si doveva fare scempio dei cadaveri. Mi dettero tutti
ragione: Salvadori, Marazza, Arpesani, Sereni, Longo, Valiani, tutti. E si
precipitarono a piazzale Loreto, con me, per porre fine allo scempio. Ma i
corpi, nel frattempo, erano già stati appesi al distributore della benzina.
Così ordinai che fossero rimossi e portati alla morgue. Io, il nemico, lo
combatto quando è vivo e non quando è morto. Lo combatto quando è in piedi e
non quando giace per terra. Però, Oriana, bisogna anche capirlo il popolo.
Bisogna capirla la plebe che ha sofferto infamie e miserie e prepotenze e,
appena può, infila in una picca la testa della contessa di Lamballe. Bisogna
allargare le braccia e dire: «Te lo sei voluto, contessa di Lamballe».
Succederà lo stesso in Spagna quando si desteranno. Succederà lo stesso in
Grecia, in Cile. È la nemesi della storia. E quando io parlo di socialismo...
Pertini,
cosa significa per lei la parola socialismo?
Significa libertà. E libertà significa giustizia. Perché non può esserci
libertà senza giustizia sociale e non può esserci giustizia sociale senza
libertà. Io sono socialista da cinquantacinque anni, cara Oriana, e mi sono
sempre battuto per le riforme perché l'essenza del socialismo è nelle riforme.
Però, se mi offrissero la più radicale delle riforme al prezzo della libertà,
io la rifiuterei. Oh, non c'è nulla che può essere barattato con la libertà!
Nulla. Io alla libertà non rinuncerò mai, mai! Detto questo, tuttavia,
aggiungo: io non posso contentarmi di una libertà in senso astratto, cioè della
libertà di parlare e di scrivere. Anche prima del fascismo avevamo la libertà
di parola e la libertà di stampa: ce l'avevan concessa i regimi liberali. Ma
per migliaia di contadini e di poveri quelle due libertà si risolvevano nella
libertà di imprecare, morire di fame. Insomma, erano libertà così insufficienti
che il fascismo ce le portò via alla prima ventata di reazione. Perché la
libertà sia una conquista solida, bisogna che abbia un contenuto sociale.
Bisogna che affondi le sue radici in seno alla classe lavoratrice. Bisogna che
effettui le riforme, che annulli le sperequazioni... Ma come è possibile che
certi dirigenti statali vadano in pensione con un milione e mezzo al mese
mentre altre categorie ci vanno con trenta e anche quindicimila lire? Che me ne
faccio della libertà con quindicimila lire al mese?
Poco.
Mi permetta di continuare. Quando parlo di classe lavoratrice vorrei che
lei mi intendesse bene, Oriana. Io non parlo solo di classe operaia. Fare
dell'operaismo è una demagogia respinta dallo stesso Lenin. Quando parlo di
classe lavoratrice io parlo anche dei ceti medi. Quei ceti medi che non
capiscono come i loro interessi non coincidano con gli interessi dei grandi
industriali, dei grandi capitalisti: coincidono con gli interessi degli operai,
dei contadini! Non capirlo è, da parte dei ceti medi, ripeter l'errore commesso
dalla media borghesia in Cile, in Grecia, e nell'Italia del 1922. Quando, nel
1922, gli squadristi si scagliavano contro di noi, i rappresentanti della media
borghesia restavano indifferenti e magari dicevano: «Eccoli messi a posto
questi sovversivi, questi disturbatori dell'ordine pubblico». Cominciarono a
capire il fascismo solo quando il fascismo si scagliò contro liberali come
Piero Gobetti e Giovanni Amendola, contro sacerdoti come don Minzoni. Ogni
volta che i ceti medi credono di far coincidere i loro interessi con gli
interessi dell'alta finanza, essi vengono colpiti dalla dittatura. Guardi il
Cile. In Cile la Democrazia cristiana ha assecondato il golpe nella speranza
che, dopo, i militari le offrissero il governo su un piatto d'argento. E invece
Pinochet ha detto no, il governo me lo tengo.
In
Cile hanno sbagliato anche gli operai.
Sì. Contro Allende hanno commesso gli stessi estremismi infantili che
avevano commesso in Italia nel 1922. Ma io continuo a credere negli operai. Ci
credo anche quando sbagliano perché essi sono la mia famiglia. E non si
condanna la propria famiglia, non si abbandona la propria famiglia quando
sbaglia. Del resto un socialista che si stacca dalla classe operaia e contadina
cessa d'essere un socialista: io non mi staccherò mai da loro, Oriana. Mai! I
contadini di Bitonto non sanno cosa volle dire per me la loro stretta di mano
nel 1949. Quando ebbi finito il comizio, mi vennero incontro per stringermi la
mano. Avevano calli alti due dita, calli che raccontavano la fatica di anni, di
secoli. E, afferrando con quei calli la mia mano bianca, dissero: «Sì, tu sei
uno dei nostri ». E io fui felice di una felicità che dura ancora oggi, che mi
dà ancora oggi le lacrime agli occhi. I metalmeccanici di Torino non sanno cosa
ha voluto dire per me parlargli nel comizio per il Cile. La loro coscienza
internazionale è così grande, così profonda. E il loro senso della libertà.
Hanno capito meglio di tanti intellettuali quel che è successo in Cile, quel
che è successo in Cecoslovacchia, quel che succede nell'Unione Sovietica con
Sacharov. Se ne sono offesi più di tanti intellettuali. Gli intellettuali...
Oriana, io non ho mai perdonato agli intellettuali d'essere vili. Salvo una
minoranza, la classe intellettuale in Italia è stata così vile! S'è adattata
così presto al fascismo! Dopo s'è coperta il capo di cenere: ma prima! Oriana,
io non perdono all'uomo di cultura di tradire la causa della democrazia non
combattendo. Perché se la cultura è solo nozionismo, io la respingo. Cultura
significa anzitutto creare una coscienza civile, fare in modo che chi studia
sia consapevole della dignità. L'uomo di cultura deve reagire a tutto ciò che è
offesa alla sua dignità, alla sua coscienza. Altrimenti la cultura non serve a
nulla.
Pertini,
ho una brutta domanda da porre. È deluso dall'Italia d'oggi?
Ah! Io direi amareggiato. Crede che non sia motivo di amarezza per me che ho
lottato cinquantacinque anni in nome della libertà vedere questi rigurgiti di
neofascismo? Crede che non sia motivo di amarezza sapere che tanti uomini
politici, anche nel mio partito, non pensano che al loro tornaconto? Crede che
non sia motivo di amarezza assistere a certi arrivismi, a certi personalismi,
agli scandali che restano impuniti, alla corruzione che dilaga? Io non mi sono
battuto per questo. Io non mi sono battuto per incontrare in Parlamento i
rappresentanti dell'antico fascismo. Io non mi sono battuto per questa
democrazia qui, così priva di contenuto e di forza. E la capisco la sua
domanda, Oriana. Anzi glielo leggo negli occhi ciò che mi vorrebbe dire e non
mi dice: «Pertini, la delusa son io.
Perché da bambina vi consideravo uomini
eccelsi, mi aspettavo tanto da voi, e voi mi avete tradito». Ha ragione. Sì.
Anche tanti giovani vengono qui e mi dicono: «Ci avete deluso». Si direbbe che
la classe politica uscita dalla Resistenza abbia dato il meglio di sé in
vent'anni di lotta e che poi si sia messa a sedere, esaurita, incapace di
mantener le promesse. Dove sono le riforme che ci eravamo impegnati a fare
quindici o vent'anni fa? Dove sono i risultati delle leggi che abbiamo varato
in Parlamento? Dove sono le risposte al malcontento? Perché è inutile che mi si
venga a dire: bisogna-sciogliere-il-Movimento-sociale. Non serve a nulla:
sciolto il Movimento sociale, sorge un altro movimento fascista. Non è
tagliando le foglie della gramigna che ci si libera della gramigna. La gramigna
va estirpata alle radici, dopo essersi chiesti perché nasce e su quale terreno.
Nasce per il malcontento, sul terreno del malcontento. Questo malcontento che
noi, classe dirigente, nutriamo. E mi ci metto anch'io, sebbene io non abbia
responsabilità dirette. E dico: abbiamo fatto un cattivo uso del potere.
Oppure
vi siete lasciati sfuggire il potere, vi siete lasciati rubare il potere? A me
non sembra che la classe dirigente italiana sia proprio quella uscita dalla
Resistenza.
È vero anche questo. In fondo non c'è riuscito tenere il potere: per un
complesso di ragioni anche internazionali. Siamo caduti nella zona di influenza
americana: Piano Marshall, Patto atlantico, NATO. Gli americani temevano una
rivoluzione e ci hanno impedito di fare ciò che avremmo dovuto. Ci hanno
rimesso in mano i vecchi arnesi del fascismo, i questori Guida, sicché è un po'
successo in Italia ciò che successe in Francia dopo la rivoluzione francese:
quando tornarono a galla i vecchi arnesi del vecchio regime. La sua domanda è
giusta. Non si può certo dire che, perfino nel dopoguerra, la classe dirigente
italiana fosse quella che aveva condotto la lotta contro il fascismo.
Almeno in
buona parte era composta da coloro che erano stati responsabili del fascismo o
che avevano tenuto a balia il fascismo. Come Orlando, come Bonomi. De Gasperi
no, perché De Gasperi aveva tenuto un atteggiamento fiero, preciso. Però tenga
presente che, nel 1947, De Gasperi sbarcò dal governo noi socialisti e si tenne
solo i socialdemocratici e fece piazza pulita degli antifascisti che avevamo
messo nelle prefetture, ad esempio, nella polizia. Noi avevamo creato elementi
nuovi: questori non usciti dal fascismo o addirittura antifascisti, sa?
Questori e prefetti che eran stati partigiani, su al nord. Ma lentamente,
lentamente, il governo centrale di Roma ce li tolse. E rimise i vecchi arnesi,
senza che noi riuscissimo a impedirlo.
E
il risultato è che oggi la polizia italiana è in gran parte fascista.
Oriana, non è che voglia fare il difensore d'ufficio. Ci mancherebbe altro.
Ma la colpa non è tutta dei poliziotti e dei carabinieri. La colpa è di chi non
gli ha mai spiegato che non devono considerarsi al servizio della classe
padronale, che la classe padronale non rappresenta l'ordine. Io gliel'ho detto
in tanti comizi, invece: «Non dovete considerare malfattori i lavoratori che scendono
in piazza. A parte il fatto che quel diritto gli è concesso dalla Costituzione,
essi non sono malfattori. Sono lavoratori che protestano per difendere le loro
famiglie. E quindi anche le vostre. Perché anche voi siete figli di contadini,
anche voi siete figli di operai. Non lo capite che la classe padronale non
scende in piazza perché non ne ha bisogno?». E agli operai ho detto: «Non
dovete considerare i carabinieri e gli agenti di pubblica sicurezza come nemici
da combattere. Non sono vostri nemici, sono figli di operai e contadini come
voi!». Il guaio è che i nostri carabinieri e ancor più i nostri poliziotti si
mettono sull'attenti appena vedono un padrone. Sono rimasti al tempo in cui
l'autorità era rappresentata dal parroco, dal feudatario, dal maresciallo dei
carabinieri e tutti gli altri eran sudditi.
Però com'è che, quando gli spiego
certe cose, capiscono? Com'è che a Rimini un colonnello di pubblica sicurezza
mi ha detto: «Lei ha parlato come si deve parlare, senza asprezza né
settarismo. Permetta che le stringa la mano». Com'è che a Saluzzo un
maresciallo dei carabinieri ha pianto per la commozione? Io conosco un
dirigente della polizia che dice: «Tocca a noi rieducarli, presidente. Da soli
non possono rendersi conto che a spingere in piazza gli operai sono i padroni.
Abbiamo avuto una polizia borbonica, poi una polizia papalina, poi una polizia
fascista. Farli diventare democratici è un lavoro lento, faticoso, ma non
impossibile». Oriana, non sono tutti fascisti. Non sono tutti Guida. E lo stesso
discorso vale per l'esercito. Non bisogna dimenticare i seicentomila soldati e
ufficiali che finirono nei campi di concentramento, i trentamila che vi
morirono insieme a settemila carabinieri, la divisione Acqui che combatté a
Cefalonia e a Corfù contro i tedeschi, la divisione Sassari che si batté a
Porta San Paolo contro i tedeschi, il generale Perotti che fu fucilato insieme
a due operai a Torino, gli alpini che andarono coi partigiani di Cuneo. Non
devono dimenticarlo nemmeno loro. E, se lo dimenticano, bisogna ricordarglielo!
Pertini,
parliamo ancora dell'Italia che l'amareggia. Cosa ne pensa della lista nera
compilata dalla Rosa dei Venti per ammazzare milleseicento antifascisti, tra
cui lei?
Penso che in questa storia si debba risalire ai mandanti, alla sorgente.
Ovunque essa sia e anche se, come temo, essa non è in Italia. Esiste una ondata
di reazione nel mondo: guardi cosa accade in Cile, in Bolivia, in Brasile, in
Uruguay. Guardi cosa accade in Grecia, nella stessa Francia dove non funziona più
il Parlamento e la libertà. Abbiamo il diritto di sapere chi sono i mandanti.
Abbiamo il diritto di sapere chi ha spinto i colonnelli in Grecia, chi ha
spinto i generali in Cile, chi ha triplicato gli agenti segreti prima del colpo
di Stato. Chi sono i mandanti? Cercateli, i mandanti. Però non vorrei che, una
volta trovati i mandanti, si restasse lì paralizzati in un atteggiamento
reverenziale. O addirittura balbettando: «Spiacenti, non possiamo parlare».
Non
mi induca a dire quali sono le potenze straniere cui alludo, Oriana. Nella mia
qualità di presidente della Camera non mi è permesso far nomi, ma sappiamo bene
di chi sto parlando perché i dubbi d'un tempo sono diventati certezza. Sì, più
degli sciagurati che volevano ammazzarci a me interessano i mandanti: non è
possibile che le piste rosse si trasformino sempre in piste nere! Strage di
piazza Fontana: il questore Guida annuncia subito la pista rossa, Pinelli e
Valpreda, poi viene fuori che è una pista nera. Bomba in via Fatebenefratelli:
idem. Episodi di Padova: idem. Ora sono a Padova e non è possibile che si
tratti di episodi isolati, indipendenti l'uno dall'altro. C'è dietro
un'organizzazione che assomiglia tanto a quelle di altri paesi. Ma è così
chiaro che si vuol turbare l'ordine pubblico per ristabilire con la forza
l'ordine pubblico! Come coi colonnelli in Grecia, coi generali in Cile. E noi
non vogliamo che l'Italia diventi una seconda Grecia, un secondo Cile.
Scusi,
Pertini...
Cosa c'è? Cosa vuole? Vuole un caffè?
No,
no. Io...
Mi permetta di continuare, di spiegare. Perché vede, Oriana, io sono veramente
costernato per quanto avviene in America con lo scandalo del Watergate. Però in
America non l'hanno messo a tacere: hanno cercato di andare a fondo. Con il
Congresso, la stampa, la televisione... Qui invece! Si parla dello spionaggio
telefonico. Poi non se ne parla più. Ma come?!? Di una cosa simile non se ne
parla più? E perché? Perché non si viene a sapere chi vuole le intercettazioni
e chi le paga? Tom Ponzi? Ma Tom Ponzi non è che una pedina, poi è libero ora e
non parla di certo! Oh, è una cosa che urta la coscienza civile. Giorni fa mia
moglie telefona a un'amica e questa, dopo un poco, le dice: «Guarda, Carla, ti
lascio perché è chiaro che il tuo telefono è controllato». Allora si inserisce
una voce e: «Me ne vado, signora, me ne vado. Così loro parlano
tranquillamente. Tanto devo smontare». Capisce?!? E non creda che sia
controllato soltanto il telefono del mio appartamento in Montecitorio: anche il
telefono di questo mio ufficio è controllato. Né mi stupirei se nella stanza ci
fosse un microfono. E lei crede che il controllo non sia legato ai fatti di cui
discutevamo prima?
Ovvio
che lo è! Pertini, lei non teme un colpo di Stato in Italia?
È una domanda che mi hanno posto in molti. Oriana, può darsi che mi
illuda... Può darsi che il futuro mi smentisca perché prevedere la storia è
difficile e fare il profeta è rischioso... però la mia convinzione gliela devo
dire. E la mia convinzione è che un colpo di Stato in Italia non possa avvenire
perché, se avvenisse, ogni piazza d'Italia diventerebbe una piazza di guerra.
Oriana, ad Atene cinquemila studenti hanno incitato la popolazione a insorgere.
E i politici non hanno risposto. In Italia risponderebbero, eccome. Centinaia
di uomini politici si metterebbero alla testa dei giovani e avrebbero con sé
gli operai di Genova, Torino, Milano, Firenze, Bologna, perfino Roma, sì! Io li
ho visti alla manifestazione di Torino per il Cile. Una manifestazione
organizzata dai metalmeccanici.
C'erano tutti: anche i contestatori.
Centocinquantamila persone, e quattromila erano giunte dalla Francia. No, io
non credo a un colpo di Stato in Italia. Che qualcuno pensi di farlo non v'è
dubbio: ma una cosa è pensarci, una cosa è attuarlo. Non si dimenticano tanto presto
vent'anni di esperienza antifascista e due anni e mezzo di lotta armata. E poi
il movimento operaio, quando è compatto, è una barriera di ferro. In Italia è
compatto. Ha tre sindacati formidabili. E non mi venga a dire che contro i
carri armati non si fa nulla, che i golpisti avrebbero le armi e noi no. Le
armi si trovano. Si dà l'assalto alle caserme e si prendono le armi, come
abbiamo fatto nella Resistenza. Oh, sarebbe più che lecito assaltare le caserme
per difendere la libertà. Sarebbe un dovere! E poi guardi: a mio parere, gli
ufficiali del nostro esercito sono fedeli. Ci sono i paracadutisti, lo so,
forse ci sono anche alcuni sbandati pronti a farsi trascinare. Ma, nella gran
maggioranza, gli ufficiali del nostro esercito non dovrebbero tradire il loro
giuramento.
Pertini,
forse mi sbaglio ma penso che il pericolo maggiore non stia negli americani,
nella CIA, nella NATO, nei paracadutisti eccetera. Sta negli italiani che si
augurano sempre l'uomo forte. Pertini, non le viene mai l'atroce dubbio che gli
italiani siano in fondo al cuore fascisti?
No! Non sono del suo parere, no! Che in Italia il terreno qualunquista,
così vicino al terreno fascista, sia un terreno fertile, è vero. Che alcuni
italiani siano tanto cretini da augurarsi l'uomo forte è altrettanto vero. Come
se non lo avessero già avuto, l'uomo forte. Come se ora non ce l'avessero in
Grecia e in Cile. Come se ignorassero a cosa conduce: alle fucilazioni, alle
prigioni zeppe, al terrore, all'inflazione... Sì, anche all'inflazione: in Cile
i prezzi sono aumentati del cinquecento per cento da quando c'è Pinochet. E chi
ha pagato, chi paga, per l'inflazione, se non la piccola borghesia che era
contro Allende e sempre si illude di avere interessi in comune con il grosso
capitale? Sì, gli italiani qualunquisti ci sono, i cretini ci sono, ma queste
verità marginali io non le considero quando mi tuffo nel popolo e tra la
gioventù.
Non vivo in una torre d'avorio: la realtà la conosco. Il popolo non è
fascista: è sano. La gioventù non è fascista: è sana. Perché basarsi su una
minoranza per cui il fascismo non è stato una lezione? Perché temere i
nostalgici e i figli di papà? I più sono con noi e, anche se non hanno fatto la
Resistenza, hanno assorbito gli ideali della Resistenza. Mi capiscono bene quando
grido: «Non permetteremo la libertà di uccidere la libertà». Quando gli ho
parlato a Perugia gridavano: «Presidente, difenderemo la libertà, stia sicuro
che la difenderemo!». Quando gli ho parlato a Torino, sprizzavano libertà da
tutti i pori della pelle. E se domani succedesse qualcosa in Italia, non ci
sarebbero solo i metalmeccanici nelle piazze, mi creda, non ci saremmo solo noi
antifascisti dai capelli bianchi, ci sarebbero anche i giovani. Lasci perdere
gli stupidi, gli scervellati, i provocatori che si abbandonano alla violenza
materiale per portare acqua al mulino dei fascisti. Lasci perdere i...
Pertini,
io temo che gli italiani non sappiano vivere nella libertà.
Ah, questa frase! Meno brutalmente me l'ha detta anche l'ambasciatore
inglese. E io le rispondo ciò che ho risposto a lui: in Inghilterra la libertà
dura da secoli, in Francia se la sono conquistata attraverso tre rivoluzioni, e
noi... Cosa abbiamo avuto noi al posto di Cromwell e delle rivoluzioni
francesi? L'unità d'Italia ci venne solo nel 1870 quando annullammo lo Stato
pontificio. Il suffragio universale ci venne solo nel 1910. Al Parlamento i
socialisti cominciarono a entrarci solo quando ci entrò Pietro Chiesa. E in più
ci sono stati vent'anni di fascismo, cioè di diseducazione politica. Alla
libertà vera il popolo italiano si affacciò solo nel 1945. Ma son passati
venticinque anni, replicherà lei. Oriana, cosa sono venticinque anni per
educare un popolo alla libertà?
Cosa sono di fronte ai secoli di libertà in cui
sono stati educati gli inglesi e anche i francesi? Non v'è dubbio che il popolo
italiano abbia ancora incrostazioni fasciste. Non v'è dubbio che le
incrostazioni fasciste siano nella polizia. Sono perfino nella magistratura,
nella scuola. E i ragazzi che escono da tale scuola, i ragazzi che crescono in
tale società, non possono certo risultare uomini liberi e ben formati. Ci vuole
pazienza, perbacco! Lei è troppo impaziente. Vedrà che le nuove generazioni
saranno più capaci di vivere nella libertà. Ah, io credo nei giovani. Ne ho
ricevuti trentamila da quando son presidente della Camera e il mio giudizio su
loro non è avventato. Una volta sono venuti in trecento, qui. Sono rimasti tre
ore e mezzo a parlare con me e il loro preside, quel Lo Cascio, ripeteva: «È
stanco, presidente?». Sicché a un certo punto mi sono arrabbiato e gli ho detto
no, sarà stanco lei, vada nel mio ufficio e si faccia offrire un aperitivo e la
smetta di sollecitarmi a concludere questa conversazione!
Scusi,
Pertini...
In un altro salone c'erano due ambasciatori che aspettavano per entrare e, a
momenti, combino un incidente diplomatico. Ma io non volevo lasciarli, quei
trecento giovani. Una bella figliola m'aveva chiesto se potevan sedersi per
terra, così s'erano seduti per terra...
Scusi,
Pertini...
Cosa c'è? Cosa vuole? Desidera un caffè?
No,
no. Io...
Non le ho offerto nemmeno un caffè! Che brutta figura! Dio, che sbadato!
No,
Pertini. Mi chiedevo, le chiedevo... Sono quattro ore che parla e non vorrei
che stavolta fosse stanco davvero.
Stanco?! Stanco io?!? Sarà stanca lei. Come Lo Cascio.
Io
non sono Lo Cascio!
Però mi chiede la stessa cosa!
E
va bene. Continuiamo. Ho una domanda sul Partito socialista e...
Ah! Il Partito socialista! Oriana, io mi pento sempre d'essermi lasciato
trascinare da un'ira. Ma non mi pento per le ire cui mi sono abbandonato in
certi congressi del mio partito perché erano ire sante. Sante! Perbacco,
eravamo il secondo partito d'Italia. Superavamo il Partito comunista.
Contrariamente alle previsioni, il corpo elettorale ci aveva dato tutti quei
voti e... Contrariamente alle previsioni, Oriana! Perché, siamo onesti: noi
socialisti eravamo così pochi in carcere! Così pochi al confino! A parte quelli
del Partito d'azione, erano quasi tutti comunisti. Su settecento confinati, a
Ponza, cinquecentocinquanta erano comunisti. Su ottocento, a Ventotene,
settecentocinquanta erano comunisti.
E le formazioni partigiane non erano quasi
tutte comuniste? A competere, in fondo, trovavi solo le brigate del Partito
d'azione. Io lo ricordo Ernesto Rossi quando, al confino, mi diceva: «Non
riuscirete più a mettere insieme il Partito socialista!». Lo ricordo quando
ripeteva: «Il Partito socialista di domani è il Partito d'azione. Dopo la
guerra voi non esisterete più». Ci credeva chiunque. Solo io rispondevo: «Vi
sbagliate. Dimenticate che la tradizione del Partito socialista, in Italia, ha
profonde radici. Risorgeremo dalla tradizione, malgrado gli errori commessi». E
fu così. Fu un po' come dice Renan quando dice che il cristianesimo vive nel
cuore degli uomini nonostante i preti. Il socialismo visse nel cuore degli
italiani nonostante i socialisti. E il partito ebbe una valanga di voti, e
noi...
Voi
rispondeste subito con le scissioni.
Sì. E quanto mi sono battuto contro le scissioni, Oriana! Quanto mi sono
arrabbiato coi socialdemocratici nel 1947 e con quelli del PSIUP nel 1964!
Quante volte ho gridato
non-solo-queste-scissioni-tornano-a-danno-del-socialismoma-del-movimento-operaio-e-del-paese!
Pensi cosa rappresenteremmo oggi in Italia se non avessimo fatto le scissioni!
E pensi cosa abbiamo provocato invece: l'indebolimento del socialismo, la
delusione del popolo italiano... Sicché tutti, ora, ci guardano con diffidenza.
E ce lo meritiamo perché abbiamo mancato al nostro compito. Noi socialisti,
quando non sappiamo cosa combinare, ci dividiamo. Se domani tre socialisti
finiscono naufraghi in un'isola deserta, sa cosa fanno? Prima issano un cencio
bianco perché una nave li veda, poi strappano il cencio in tre parti e formano
tre correnti del Partito socialista.
È la nostra maledizione. Da cosa viene
tale maledizione io non lo so. Forse da una radice anarchica. Sì, un po' di
Bakunin c'è. Senza dubbio. I miei compagni non vogliono che lo dica ma, se non
siamo un po' anarchici, siamo troppo individualisti. D'accordo:
democraticamente è una cosa buona. In un partito democratico si deve discutere
e non accettare la rigida disciplina del Partito comunista. Nella disciplina il
Partito comunista condensa la sua forza ma anche la sua debolezza: essa lo
tiene compatto ma allo stesso tempo gli impedisce di far circolare le idee.
Però, accidenti: noi socialisti paghiamo un prezzo troppo alto per far
circolare le idee. Dico: una cosa sono le correnti di pensiero e una cosa sono
le correnti organizzate che diventano fazioni organizzate, un partito nel
partito. Bisticciai in questi termini con Saragat. Poi andai a Palazzo
Barberini e cercai di convincerlo a non fare la scissione. Non m'ascoltò. Andai
anche da quelli del PSIUP, anni dopo. Non mi vollero ascoltare nemmeno loro. Io
non sono mai riuscito a farmi ascoltare. Solo dopo hanno detto: «Aveva ragione
Sandro».
Anche
Nenni? Io mi son sempre chiesta quali fossero, in realtà, i suoi rapporti con
Nenni.
Rapporti di amicizia e di stima reciproca, anche se spesso abbiamo
dissentito violentemente. Ma definire dissensi le nostre dispute è perlomeno
inesatto perché si è trattato di dispute gravi, gravi... Nel 1948, ad esempio,
quando Nenni volle a ogni costo la lista unica coi comunisti. Per me era un
errore grossolano. Così, al congresso dell'Astoria, mi battei come una tigre
contro di lui. Sostenni che dovevamo presentarci da soli perché eravamo noi a
interpretare la tradizione socialista: presentarci in lista unica sarebbe
servito soltanto a portare acqua al mulino socialdemocratico. Saragat non ci
aveva forse accusato, un anno prima, d'essere fusionisti? Non s'era forse
staccato da noi servendosi di quell'accusa?
La lista unica coi comunisti gli
avrebbe dato ragione e avrebbe rischiato di portarci chissà dove. Prima la
lista unica, poi il gruppo unico alla Camera, e infine il partito unico. Com'è
mio costume, non feci l'anticomunista ma Nenni vinse ugualmente e io ne
soffrii. Eppure non persi il mio affetto per lui. Non l'ho mai perduto. Ho
sempre voluto bene in modo fraterno a quest'uomo con cui mi litigavo. Non ho
mai potuto dimenticare che anche lui ha dedicato la vita alla causa della
libertà, della democrazia, della classe lavoratrice. Ma lui ne ha abusato, sa?
Ne ha abusato eccome. Sapeva che gli volevo bene e se ne approfittava. Diceva:
«Tanto ho l'appoggio di Sandro! Lui si urta con me e poi, all'ultimo momento,
sta con me. È così legato al partito!». Capito? Il peggio è che ha ragione: al
partito ci sono legato. Non lo lascerò mai. Come la politica. Mi spengerei.
E
con Saragat?
Lo stesso. O quasi. Certo, quando Saragat è diventato socialdemocratico, mi
sono molto staccato da lui. Anche in senso affettivo. L'ho aggredito aspramente
nei comizi. L'ho trattato senza peli sulla lingua ma vede... ecco... insomma: non
è che Saragat mi sia meno simpatico di Nenni, però io ho sempre sentito un
maggior affetto per Nenni. E non solo perché Nenni è sempre stato fedele al
partito ma perché Nenni ha una carica umana che Saragat non ha. Oh, io la
carica umana ce l'ho più di Nenni. Voglio dire: tutti e due abbiamo una forte
carica umana ma la mia è superiore a quella di Nenni e...
Via,
lo dica.
Lo dico, lo dico! Dico: considerata quella carica umana, è strano che il
grande legame non sia tra Nenni e me, bensì tra Nenni e Saragat. Uh, c'è un
tale affetto tra i due! Sono come due amanti che si ripetono: «Nec sine te nec
tecum vivere possum. Né con te né senza di te posso vivere». Sa, la poesia di
Catullo e di Lesbia. Si amano di un odio-amore quei due. Si amano così fin dal
tempo in cui erano fuorusciti in Francia. Non ha capito perché la
riunificazione del Partito socialista andò così male? Perché fu un affare
privato tra Nenni e Saragat: non un'operazione di base ma un incontro al
vertice. Non poteva che finire in malora, infatti io lo avevo previsto che
sarebbe finita in malora. Oriana, posso raccontarle una storia che spiega
benissimo i rapporti tra Nenni e Saragat. È la storia della mia evasione da
Regina Coeli. Dunque, nell'inverno 1943-44, io ero a Regina Coeli.
E c'era anche
Saragat. E tutti e due eravamo condannati a morte dai tedeschi. Lo sa come
facevano i tedeschi: condannavano a morte anche senza processo, in via
amministrativa. Poi pescavano da quel pozzo di San Patrizio e fucilavano per
rappresaglia. Io e Saragat stavamo nel braccio tedesco insieme a quattro
ufficiali badogliani. E i nostri preparavano la fuga. Ci pensava Giuliano
Vassalli che era al tribunale militare italiano, Alfredo Monaco che era il
direttore del carcere, sua moglie Marcella, Filippo Lupis, Giuseppe Gracceva.
La prima parte dell'operazione consisteva nel trasferirci dal braccio tedesco
al braccio italiano e a questo provvide Vassalli. Poi Gracceva mi mandò a dire
che dovevo prender contatto con Monaco fingendo un attacco di appendicite, e
ubbidii. Una notte mi metto a urlare
oddio-sto-male-chiamate-d'urgenza-il-medico, così arriva Monaco, finge di
visitarmi e intanto mi sussurra di stare pronto: si prepara la mia fuga e
quella di Saragat.
«No», rispondo. «No. Io e Saragat soltanto, no. Ci sono anche
gli altri quattro. O tutti e sei o nulla. » Monaco riferisce ai compagni,
badate-che-Pertini-stapuntando-i-piedi, i compagni riferiscono a Nenni, e Nenni
dice spazientito: «Ma fate uscire Peppino! Sandro il carcere lo conosce, c'è
abituato. Peppino no, poveretto. Per lui è la prima volta. Pensate a Peppino,
poi penseremo a Sandro». Bè, mi andò liscia ugualmente: Vassalli fabbricò i
fogli di scarcerazione, Ugo Gala li fece trovare sul tavolo del direttore
insieme alla posta del mattino, e uscimmo tutti e sei. Ma appena vidi Nenni
glielo dissi: «Pietro, cos'è questa storia del
fate-uscire-Peppino-pensate-a-Peppino-tanto-Sandro-al-carcere-c'è-abituato? E
che? Siccome c'ero abituato, ci dovevo morire?».
Pertini,
sono quasi le due del pomeriggio e lei non ha ancora mangiato. È sicuro di non
sentirsi stanco?
Le ho detto di no! È stanca lei?
No,
no. Continuiamo. Cosa provò quando la condannarono a morte?
Vede, Oriana: io non ho mai avuto paura della morte. Me la son vista addosso
tante volte, alla guerra e sotto i fascisti, che non mi ha mai impressionato.
Non solo: non ho mai conosciuto la paura fisica. Mica che sia un merito, eh? La
paura fisica è un fatto nervoso contro cui si reagisce male anche se si è
persone intimamente coraggiose e fiere. È come un mal di denti che c'è o non
c'è. Alcuni sopportano il mal di denti e altri no. Infatti le persone che
ammiro non sono quelle che ignorano la paura: sono quelle che avendo paura
vanno avanti lo stesso. Così, quando seppi d'essere stato condannato a morte,
io avvertii solo il bisogno di scrivere il mio testamento politico e di
nasconderlo dentro le scarpe perché, dopo la fucilazione, lo dessero ai
compagni.
Del resto anche Saragat si comportò bene. Niente lacrime, niente
nervosismi. Oddio: non poteva certo saltare di gioia. Infatti fu colto da una
giusta preoccupazione per la famiglia eccetera. Però si comportò bene, con
tranquillità. E quando lasciai Roma per andare al nord e proseguire la lotta
armata... Lasciai Roma perché il Papa aveva fatto sapere a De Gasperi che i
tedeschi l'avrebbero evacuata se le formazioni partigiane non avessero
attaccato e Nenni mi disse: «Guarda, non si fa più l'insurrezione, abbiamo
deciso di non correre questo rischio, tanto i tedeschi se ne vanno». Lui e
Saragat rimasero lì. Ma il mio posto non era più lì. Era dove bisognava
combattere i tedeschi e i fascisti.
Pertini,
è vero che non ha amici nel campo politico?
No, non è vero! Ne ho molti, invece. Anche nel campo avversario. Semmai
posso dire di averne un maggior numero nel campo avversario perché... Aveva
ragione Gramsci quando diceva che per esser compagni non c'è bisogno d'essere
amici, e si può essere amici anche senza esser compagni. «Non t'illudere,
Sandro. Io ho un'esperienza in proposito.» Ce l'ho anch'io, Oriana. Con tanti
compagni di partito non mantengo nessun legame affettivo, e tanti avversari
invece li considero davvero amici. Gente su cui posso contare. Per esempio, ho
sempre voluto un gran bene a Ignazio Silone che uscì dal partito. E ho provato
affetto, oltreché enorme stima, per Antonio Gramsci. Un profondo legame l'ho
avuto con Giorgio Amendola, Luigi Longo, Emilio Sereni, Giancarlo Pajetta:
comunisti.
E anche con Leo Valiani del Partito d'azione. Sì, sono un uomo che
tiene molto alle relazioni umane. Per l'amicizia ho un culto. Glielo
spiegherebbe bene mia moglie che è il mio primo amico. Infatti, se mia moglie
vuol vincermi, non deve dirmi: «Tu sei mio marito». Deve dirmi: «Allora non
siamo più amici, Sandro?». E qui mi lasci dire un'altra cosa, Oriana: io voglio
molto bene a mia moglie. Molto bene. Carla è la mia unica fonte di serenità. Ci
sposammo nel 1946, dopo essere stati per due anni compagni di lotta. E io non
volevo sposarla, sa? Non volevo perché era troppo più giovane di me e un
fallimento matrimoniale sarebbe stato un dramma per me. Avrebbe incrinato la
mia psiche per sempre. Io non capisco quelli che si separano e vanno per la
loro strada. L'altro giorno è venuto un amico carissimo e m'ha detto ridendo:
«Sai, mi sono diviso da mia moglie». Ridendo! Sì! Ho sentito un brivido
ghiaccio.
Pertini,
io la mando a mangiare. Sennò sua moglie...
Oh, mangio così poco, io. È il segreto della mia salute. Un po' di carne, un
po' d'insalata e via. La sera, un po' d'insalata e basta. Non sono goloso.
L'alcool non lo tocco. Se c'è un brindisi, porto il bicchiere alle labbra e non
bevo. Solo quando vado in campagna prendo un goccio di vino e lo allungo con
molta acqua. Piaceva a mia madre...
Grazie,
Pertini. Grazie con tutto il cuore.
Grazie a lei, cosa dice? Sapesse che sollievo è per me confidarmi a chi mi
capisce e non mi fa arrabbiare. Un'evasione, un sollievo che mi concedo così
raramente. Perché a me non piace mettermi in vetrina. Lo sanno anche quelli
della televisione che mi chiamano sempre e io non ci vado mai. E poi la TV
rovina gli uomini politici: meno ci si fa vedere e meglio è. Per altri mettersi
in vetrina è un onore. Ma gli onori io li trovo così fastidiosi. Infatti questa
carica non l'ho cercata: me l'hanno affibbiata e la tengo per un senso di
responsabilità. Fare il presidente della Camera è una tale responsabilità. È
più difficile che fare il presidente della Repubblica, creda. Tenere a bada
seicentotrenta deputati, uh! Vi sono giorni in cui se ne esce stremati. Come in
quella seduta che durò centocinque ore e alla fine mi venne un bel collasso che
mise in disperazione la Carla. Ma lei è stanca, Oriana.
È stanca, poverina. Si
vede. Forse vuole andarsene. Vada... Ma torni, eh? Torni a farmi visita. Io
spero di non averle dato impressioni sbagliate. Soprattutto nella faccenda
delle amarezze e degli scoraggiamenti. Ne ho. Quando assisto a quell'ondata di
reazione mondiale, ad esempio, o quando guardo a certi paesi socialisti che non
hanno libertà. Mi prende un'angoscia, un dolore... E dico ma come, se in cinquant'anni
di socialismo non sono stati capaci di dare la libertà, allora che socialismo
è? Il socialismo non vuol dire soltanto liberarsi dal giogo delle catene
economiche, vuol dire liberarsi dal giogo di ogni catena confessionale e
ideologica... Però io non dispero dell'avvenire del popolo italiano, Oriana.
Perché non dispero della gioventù. Io so bene che anche la mia generazione ha
avuto una classe politica che ha lasciato venire in Parlamento tanti imbecilli.
Tanta gente debole, fiacca, che non ha saputo resistere al fascismo. Eppure
abbiamo trovato la nostra strada.
La gioventù d'oggi troverà la sua strada. È
una gioventù in gamba: non si lasci spaventare dagli scervellati, dagli
sciagurati che si abbandonano alla violenza materiale, che a bordo delle loro
spider vanno a disturbare gli operai della Mirafiori in sciopero, e definiscono
crumiri i tre o quattro che sono rimasti a bada della centrale termoelettrica.
Quelli son provocatori, glielo ripeto. La gran maggioranza dei giovani, creda,
sta dalla parte della libertà. E si comporterà bene. Io lo so! Lo so perché
sono un uomo di fede. E un uomo di fede non deve mai disperare. Deve credere
sempre nell'avvenire.
|