Con l’avviato iter istituzionale del gemellaggio tra Tursi e Genova, è recente un proficuo incontro tra il sindaco Salvatore Caputo e il collega ligure Giuseppe Pericu, potranno riconsiderarsi anche il rapporto storico, la relazione di oltre due secoli e il legame profondo che ha legato il paese della Rabatana alla grande e nobile dinastia dei Doria (successivamente anche ai Doria-Spinola, Doria-Del Carretto e Colonna-Doria). Acquistato il castello dai Grimaldi, banchieri napoletani, quand’era in costruzione, la famiglia genovese lo denominò quasi subito “Palazzo Tursi”. Ma perché tale intitolazione? Una dedica perenne necessita di una spiegazione quantomeno accettabile e plausibile, sempre in attesa di soluzioni definitive. Si dice anche che il palazzo avesse un numero di gradini interni equivalente alla “pitrizza” tursitana, la rampa di scale in pietra che collega(va) la Rabatana al sottostante paese. Se il parallelismo tra le scalinate, pur apparendo assai verosimile, è già difficile da dimostrasi (per una serie di lavori nelle due realtà, succedutisi nel tempo), ancor più incerta appare la fondamentale motivazione che portò alla denominazione della magnifica dimora (fino al 1820 di proprietà), sopravvissuta all’unificazione del Regno d’Italia e alla nascita della Repubblica, poi sede del Municipio genovese.Il racconto popolare e alcuni esperti hanno spiegato il particolare “affetto”, che i discendenti dell’ammiraglio Andrea Doria avrebbero provato verso i sudditi locali (ma i loro fiduciari in loco erano spesso senza scrupoli e all’origine di molti contenziosi), poiché nel sarcofago della cripta della chiesa di Santa Maria Maggiore sarebbero custodite le spoglie di un loro nobile discendente. La stranezza consiste nella negazione secolare, autorevole e silenziosa dell’acclarata verità, trattandosi, invece, del giovane figlio dei nobili De Giorgiis, originari di Anglona, i quali, consapevoli della prossima estinzione familiare, chiesero ed ottennero di affrescare i locali, probabilmente opera di Giovanni Todisco, e di posizionarvi un pregevole presepe in pietra, dello scultore Altobello Persio, nel 1550. Dunque, prima dell’arrivo definitivo di Carlo Doria, da re Filippo III nominato duca di Tursi nel 1594, seguito dal figlio Giannettino, poi dal suo erede Carlo Doria Junior e dalla figlia Maria Tersa Giovanna (1701-1750), che risulta battezzata a Tursi. Tutto questo è noto almeno dal 1851, quando il medico e archeologo tursitano Antonio Nigro pubblicò il suo fondamentale “Memoria Topografica Istorica Sulla Città Di Tursi E Sull’Antica Pandosia Di Heraclea Oggi Anglona” (Tipografia Di Raffaele Miranda, Napoli). Dunque, perché continuare in quella versione? Semplicemente perché manca(va)no ipotesi alternative e minimamente credibili, d’altronde, anche il divino Cartesio avrebbe preferito vivere nell’errore piuttosto che nell’ignoranza. E qui ci soccorre l’intuito del giornalista professionista Pasquale Doria (cognome e caso che si rincontrano?), vice responsabile della Gazzetta di Matera, autore di una brillante quanto suggestiva ipotesi di lavoro, ancorché gravida di possibili sviluppi sul piano storico e non solo, proprio riferita alla produzione araba delle famose arance tursitane. Che consentiva un approvvigionamento fondamentale di frutta utilissima, non tanto e non solo per gli usi alimentari e nutrizionali in genere, ma soprattutto una riserva vitaminica con funzione preventiva e terapeutica, contro il rischio dello scorbuto dei naviganti e per la cura degli imbarcati nei lunghi viaggi per mare, come avevano compreso già dall’antichità i Saraceni. Unico popolo arabo che nel proprio nome contiene “arance”, e che, non a caso, provvedeva alla piantumazione di agrumeti nelle vicinanze degli insediamenti abitativi ritenuti adatti geograficamente, sia per il clima che per il terreno, come avvenne in precedenza nella Sicilia e in Calabria verso l’VIII secolo. Tursi, caso piuttosto isolato nella regione, non sfuggì dunque a questa buona abitudine, dettata evidentemente da ragioni pratiche di sopravvivenza. E i nobili genovesi, anche principi di Melfi con Giovanni Andrea Doria (e poi con Andrea), oltre che duchi di Tursi, avevano ben capito e carpito il segreto, essendo eccezionali navigatori anch’essi. In fondo, non si comprenderebbe adeguatamente il legame esistente, così intenso e duraturo, tra i tursitani e la famiglia Doria, se non per questioni legate alle qualità strategiche, difensive e produttive, insomma alle ricchezze del territorio e alla disponibile e fedele coltivazione degli abitanti del luogo. (Secondo alcuni esisterebbe un editto in favore dei tursitani, che garantiva loro una perpetua esenzione daziale in territorio ligure). A supportare la straordinaria intuizione d(e)i Doria, una serie di utili elementi. Intanto, la posizione geografica del luogo di coltivazione, lungo i tratti dei fiumi che circondano Tursi, soprattutto del Sinni (notare che, dal sito del castello “ormai diruto”, anche quasi ad occhio nudo si potevano vedere le navi e seguire ciò che avveniva alla foce), perciò non distante dal litorale marino; quindi la facilità di accesso, con la navigabilità fino al Settecento, se non proprio “pesante” almeno “leggera”, del Sinni, fino a Favale (oggi Valsinni), e l’Agri, oltre l’asse direzionale della Rabatana. Inoltre, proprio la scarsità di siti similari di origine o di consolidamento arabo-musulmano nel comprensorio, fa emergere l’importanza che annettevano gli stessi orientali a quello tursitano, inserito dal massimo cartografo arabo Muhammad ibn Idrisi (o Edrisi, ndr) nella sua carta d’Italia (conservata a Oxford) del 1154 con il toponimo di Tursah, insieme ad altre località che subirono una permanenza saracena per lunghi periodi, tra la metà del IX e il XIII secolo: Matera, Abriola, Castelmezzano, Castelsaraceno, Guardia, Grumentum (oggi Grumento Nova), Lagopesole, Pescopagano, Montepeloso (l’odierna Irsina), Pietrapertosa, Tricarico. Ed anche se la dominazione saracena durò in loco circa ottant’anni a cavallo dei secoli IX e X, questo non contraddice assolutamente nulla, essendo indubbia la profondità culturale e sociale della loro permanenza (tipologia architettonica e nome del borgo: anticamente Arabetana, poi Arabatana e, infine, Rabatana, e un certo lessico). Tanto più se, quando giunsero i Doria (oggi ricordati solo per la istituzione di una fiera e per la costruzione di un centro di pagamenti dei dazi doganali, e una fontana), la produzione era ormai consolidata, pur restando la sua utilità sconosciuta probabilmente agli stessi coltivatori del luogo. Al contrario delle vicissitudini della Chiesa, che non fu mai elevata al rango di Cattedrale, proprio per alcune contaminazioni arabe ed orientali, come si racconterà la prossima volta. Salvatore Verde
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