Quando andremo in pensione? Le malefatte della politica sull'INPS di Verdiana C. Verde
ECONOMIA / OCTOBER 22,
2013 BY ITALIANO PER CASO - www.italianopercaso.it
Come
può l'INPS cambiare le carte in tavola, stabilendo arbitrariamente la modifica
delle condizioni in base alle quali i soggetti possono accedere alla loro
pensione, dopo anni e anni di versamenti e vincoli di stipendio?
L'INPS,
l'Istituto Nazionale di Previdenza Sociale è una sorta di impresa assicuratrice
che stipula con i lavoratori, autonomi e dipendenti, privati e pubblici
(ormai), delle "polizze assicurative" che vedono contrapporsi al pagamento dei
premi il diritto ad una rendita vitalizia allo scadere del termine previsto
(anno di pensionamento).
Ora, se pensassimo ad una semplice impresa assicurativa o bancaria, o a
semplici contratti a prestazioni corrispettive, il cambiamento unilaterale
delle condizioni da noi sottoscritte nel contratto ci rivelerebbe l'assurdità e
sarebbe legalmente perseguibile o, quantomeno, ci verrebbe data la possibilità
di recedere dal contratto percependo ciò che è stato maturato fino a quella
data.
Tutto ciò in funzione del sacrosanto principio di corrispettività che
consiste, dunque, in un rapporto di condizionalità reciproca tra le
prestazioni. L'elemento in oggetto rappresenta il punto di equilibrio raggiunto
dalle parti in sede di formazione del negozio
giuridico nella congiunta volontà di scambiarsi diritti e obbligazioni
attraverso lo scambio di una prestazione con una controprestazione. Ciò
alla base di qualsivoglia negozio giuridico che preveda obbligazioni
corrispettive da entrambe le parti del contratto.
Tale è l'equilibrio che si vuole e si deve mantenere nei negozi giuridici, al
fine di tutelare gli interessi di tutti i soggetti coinvolti, che ad entrambe
vengono assegnati diritti oltre che obblighi. Nel codice civile si legge che la
parte che deve eseguire la prestazione divenuta eccessivamente onerosa può
domandare al giudice la risoluzione del contratto. E il caso di dover
lavorare e quindi versare contributi-premi per un lasso di tempo maggiore
rispetto a quello convenuto al momento della stipula è un aggravio
dell'onerosità delle prestazioni.
Il rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità si applica
ai contratti di durata [v. 1373 c.c.]: ad esecuzione
continuata (in cui la prestazione è unica ed ininterrotta nel tempo, come
la locazione), o ad esecuzione periodica (in cui si hanno più
prestazioni che vengono effettuate in date prestabilite, come la
somministrazione di derrate); ed ai contratti ad esecuzione
periodica [v. 1373 c.c], in cui gli effetti si producono in un momento
successivo alla conclusione del contratto, e si esauriscono in un solo istante
(es.: vendita a termine).
La
ragione per cui il rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità si applica
solo ai contratti dinanzi indicati si spiega per il fatto che solo nei contratti
in cui intercorre un intervallo di tempo tra il momento della conclusione di
esso e il momento dell'esecuzione della prestazione, possono verificarsi gli
avvenimenti straordinari ed imprevedibili.
Perciò,
che la congiuntura, o la cattiva gestione delle risorse, abbiano reso
difficoltoso l'adempimento da parte dell'Inps, che in questo caso è il nostro
debitore, è un qualcosa che non può e non deve ricadere sulla vita delle
persone che negli anni hanno adempiuto alle loro obbligazioni. È illecito.
E in oltre, la tattica adottata dall'Istituto di applicare le modifiche
pensionistiche a chi non ha ancora maturato il diritto alla pensione è,
appunto, la conferma che l'Istituto sa anche che se si raggiunge lo scadere dei
termini non può modificare l'erogazione-prestazione in corso, per gli stessi
principi di legge di cui sopra.
Dai
testi giuridici si legge che: "Si noti che la prestazione deve diventare
eccessivamente onerosaprima che il contratto abbia
avuto esecuzione e purché il debitore non sia in mora (il
debitore in questo caso è l'INPS): si ricordi, infatti, che se è a carico del
contraente moroso l'impossibilità sopravvenuta della prestazione dovuta, a
maggior ragione sarà a suo carico l'onerosità sopravvenuta durante la mora. La
mora si ha se allo scadere dei termini di pensionamento, originariamente
previsti, l'Inps nostro debitore non è in grado di erogare la prestazione
dovuta. Quindi, non solo l'Inps non può modificare i termini del contratto ma,
qualora non possa adempiere la sua prestazione, sarà addirittura in mora.
Ora, posto comunque il valore sociale svolto dall'Ente, e volendo comunque
trovare un punto di accordo, non si può comunque non esercitare i propri
diritti: l'allungamento del periodo di lavoro incide in modo così rilevante
nelle nostre vite perché lo scopo di una vita non è vivere per lavorare ma
lavorare per vivere.
E se lavoriamo fino a 66 anni quanti anni rimarrebbero per godere di un po' di
pace? Quanti anni l'Inps dovrebbe pagare attraverso le pensioni fino alla
nostra morte? Ciò che noi gli abbiamo dato negli anni di lavoro ci verrebbe
restituito per una parte irrisoria, stante l'elevata percentuale di mortalità
oltre i 70 anni non vi pare? E allora non è giusto che l'Istituto e il Governo
modifichino le condizioni di un nostro contratto lucrando dalla nostra
dipartita e dai nostri sforzi in primis.
Persino
il ramo bancario ha adottato misure a tutela della controparte e
dell'equilibrio nei negozi giuridici.
A partire dal 4 luglio 2006, con il cosiddetto "Decreto Bersani" n. 223, sono
entrate in vigore alcune modifiche all'articolo 118 del T.U.B. (Testo
Unico Bancario) che riguardano le modifiche unilaterali delle condizioni
contrattuali:
- Nei contratti di durata può essere convenuta la facoltà
di modificare unilateralmente i tassi, i prezzi e le altre condizioni
di contratto qualora sussista un giustificato motivo.
- Qualunque modifica unilaterale delle condizioni contrattuali deve
essere comunicata espressamente al cliente per iscritto, secondo modalità
immediatamente comprensibili, con preavviso minimo di trenta giorni.
- Entro 60 giorni dal ricevimento della comunicazione scritta, il cliente
ha diritto di recedere senza penalità e senza spese di chiusura e di
ottenere, in sede di liquidazione del rapporto, l'applicazione delle condizioni
precedentemente praticate.
- Le variazioni contrattuali per le quali non siano state osservate le
prescrizioni del presente articolo sono inefficaci, se pregiudizievoli per il
consumatore.
- Le variazioni dipendenti da modifiche conseguenti a decisioni di
politica monetaria devono operare, contestualmente in pari misura, sia sui
tassi debitori sia su quelli creditori.
Proprio sull'ultimo punto ci soffermeremo.
Le ragioni di politica economica, quanto di quella monetaria, per il loro ampio
raggio di azione giustificano l'adozione di misure atte a cambiare lo stato
attuale delle condizioni, privilegiando il bene pubblico, gli interessi di
tutti (anche se sarebbe meglio dire di "molti" più che di tutti!) in luogo di
quelli dei singoli.
Proprio per questo siamo in grado di scendere a compromessi, nel corso della
nostra vita, con le decisioni politiche.
Tuttavia,
uno sbilancio così elevato che non prevede alcuna variazione a favore degli
interessi dei creditori è un qualcosa di inaccettabile.
Pensate
se si potesse avere la possibilità di trasformare parte del debito-liquidazione
che l'Inps ha in scadenza con i nostri genitori, o altri parenti in assenza, in
un debito a medio/lunga scadenza verso di noi: parte della liquidazione, somma
da liquidare in una o poche più soluzioni, si trasforma in pensione futura, da
liquidare mensilmente e posticipata nel futuro.
Questo
si tradurrebbe in un vantaggio per l'Istituto che non dovrà sborsare ora soldi,
che non ha, ma li verserà più in là nel tempo. Si avrebbe lo stesso effetto e
obiettivo della manovra attualmente adottata. E le esigenze di cassa, che
dovrebbero, secondo loro, essere colmate dai premi aggiuntivi che i nostri
genitori dovrebbero versare continuando a lavorare, verrebbero semplicemente
coperte dai contributi pagati da noi, dai figli che entreranno nel mondo del
lavoro, data la fuoriuscita dei nostri genitori!
Parte
di questo debito verso i nostri genitori, infatti, si trasformerebbe in un
debito dell'Inps verso di noi nel momento in cui noi andremo in pensione.
Una
sorta di solidarietà generazionale "effettiva" finalmente.
Al
contempo, nella vita reale succederà questo: anziché vedere i nostri genitori
lavorare a 60 anni per poi dare a noi, disoccupati, i mezzi per sopravvivere,
vedremo noi lavorare e loro avere una pensione che sarà ridotta in termini
reali ma di fatto sarà all'incirca quanto gli rimaneva dopo averci mantenuto!
Noi
ci ritroveremmo ad avere già qualche anno di contributi che, considerata la
difficoltà di trovare un lavoro stabile e considerata anche la realtà che a 30
anni siamo in pochi a godere anche solo di 1 anno di contribuzione, non è da
sottovalutare.
Fino
a che età dovremo lavorare? E con che pensione: di vecchiaia?
E
l'età di pensionamento, quando noi ci arriveremo, a che livello sarà arrivata?
Se
nel 2013 è a 66 anni, nel 2049, quando noi saremo in età pensionabile, il
limite sarà arrivato ad 80 anni?
E
quanto tempo resteremo vivi e, soprattutto, in buona salute da goderci la
pensione? ... non si lavora una vita intera.
Ogni
contributo che versiamo oggi non lo rivedremo più sottoforma di pensione
spettante ... se si continua a permettere al Governo, ai partiti, ai manager di
Istituti, di cambiare le condizioni di un contratto che è a obbligazioni
corrispettive e per il quale deve essere garantito il diritto all'equilibrio.
E
che condiziona le nostre vite.
Verdiana
Carmen Verde
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